La giusta distanza

Pubblichiamo una riflessione di Michele Serra inviata agli iscritti della newsletter ok Boomer! de Il Post

Michele Serra è membro del Comitato Etico-scentifico di Mountain Wilderness

Visto, e molto amato, Le otto montagne. Contiene tutta la potenza vertiginosa della montagna, che è la potenza della solitudine e della distanza. L’alpeggio, la pietra, la neve, la notte, il giorno, il torrente, il vento, cos’altro?
Il deserto e l’alta montagna (immagino anche l’alto mare, che ho frequentato poco perché mi sgomenta) sono due facce della stessa condizione: ci si sente piccoli e soli, esposti all’immensità del cosmo, in una condizione di asocialità che acuisce di molto la percezione di se stessi (del proprio spirito?). Nel film la voce del vento è quasi ininterrotta – la vera colonna sonora. Un ruggito implacabile, di una belva che non riposa mai. Mi ha fatto pensare che nell’Ecclesiaste, libro terribile della Bibbia ebraica e cristiana, il vento è ovunque, segna il tempo e forse lo divora. Il vento dell’Ecclesiaste ha fauci e spazza il nulla piatto – il deserto. Il vento di montagna scuote le vette, rimbalza, si arrotola in enormi vortici, gli resistono solo il cirmolo, che si abbassa per scansarsi, e gli ultimi larici dalla forma eroicamente ritorta (li ha torti la tempesta: mi piego ma non mi spezzo). E gli resiste l’uomo, ovviamente, riparato dietro una cresta o un masso e protetto dal suo sapere tecnologico: a vincere la paura delle cime, perfino più del razionalismo che scacciò il terrore degli spiriti maligni, poterono il Gore-Tex e il Vibram.

Paolo Cognetti è l’autore de Le Otto Montagne

A Lecco, ai funerali di Walter Bonatti, nel 2011, vidi un bel campionario di “facce di montagna”. Alpinisti, guide, viaggiatori, qualche giornalista non stanziale, qualche intellettuale non televisivo. Francesi, austriaci, svizzeri, italiani. I suoi amici di una vita, le Alpi radunate in un grande prato. Vestiti andanti, parecchie barbe, corpi magri di camminatori, sguardi resi sottili dalla troppa luce. Facce molto intense, di uomini e (meno numerose) di donne. Pensai: sono forgiate dall’esposizione agli elementi, non dallo sforzo di piacere. Facce che guardano, non facce che si sentono guardate. Per dare l’idea, il contrario del lifting.
Mi si avvicina un signore di età indefinibile (non giovane, comunque), piccolo, secco, abbronzato, che pareva appena sceso da una cresta, o uscito da un rifugio.

Lei è Serra?

Sì, buongiorno.

Devo farle una domanda.

Mi dica.

Le sembrerà una domanda strana.

Pazienza. Me la faccia lo stesso.

Quante fotografie di Berlusconi saranno uscite sui giornali?

Davvero non saprei… migliaia, immagino.

Migliaia. Benissimo. Ne ha mai vista una di Berlusconi in montagna?

… No. Adesso che mi ci fa pensare, non direi proprio.

Ecco. È esattamente quello che le volevo dire.

Mi salutò e sparì.

Berlusconi e Medvedev sulla neve (DMITRY ASTAKHOV/AFP/Getty Images)

Ripensandoci più tardi mi venne in mente che qualche foto di Berlusconi nel centro di Cortina, o di Courmayeur, probabilmente esiste. Ma stava entrando o uscendo da qualche illustre locale, o dalla casa di Bruno Vespa. Foto di “Berlusconi in montagna”, così come le intendeva quel signore, non ne ho mai viste – prego il fact-checker del Post a me addetto di soprassedere, nel caso ne trovasse una: si tratta, ne sono certo, di un fotomontaggio, o di una simulazione per conquistare il voto degli addetti alla funivia e dei maestri di sci.
Questa storia di Berlusconi e della montagna mi è rimasta impressa. Ci ho spesso riflettuto. Ancora di più questa mattina, 12 giugno, che Silvio Berlusconi è morto e chi gli ha voluto bene – moltissimi – si sente orfano. Per i commenti politici ci sarà tempo, ne scriveremo e ne leggeremo a tonnellate. Questo brevissimo racconto “alpino”, evidentemente, parla di politica molto indirettamente. Piuttosto prova a mettere a fuoco una profonda differenza esistenziale, estetica e anche etica. Chissà se contano di più o di meno le differenze etiche ed estetiche delle differenze politiche…
Effettivamente, l’antropologia che vi ho appena descritto per sommi capi – quella del funerale di Bonatti – è quanto di più distante dalle convention di Publitalia, da quei completi blu, quell’umanità ceronata, quelle hostess sorridenti, quei colori televisivi troppo vividi per essere veri. Volessimo buttarla in vacca (che è, per altro, animale da alpeggio) potremmo dire che la montagna “è di sinistra”. Ma per carità non facciamolo, che poi ci toccherebbe aggiungere che il mare è di destra, e mi scriverebbero Giovanni Soldini e Renzo Piano, a nome di infiniti altri, chiedendomi se sono diventato scemo.
Risaliamo, invece, fino all’inizio di questo scritto, dunque al concetto, credo fondamentale, di distanza. La montagna è importante, per molti, perché è distante dalla società, dalla città. Risponde al bisogno di frapporre uno spazio, un distacco, una cesura. Ed è una cesura così netta, direi così “drammatica”, che quando poi si ridiscende a valle si prova un sollievo almeno pari all’esaltazione della salita. Anche l’Ecclesiaste preferiamo leggerlo in una casa comoda e calda, le Otto montagne vederle su Netflix. Il vento se ne rimanga fuori, grazie.

Walter Bonatti. Foto: Wikipedia

Quando il giovanissimo Bonatti (che, lo dico per i meno vecchi, è stato forse il massimo protagonista dell’alpinismo “classico”, nonché, incredibile ma vero, una popstar assoluta nell’Italia degli anni Sessanta) faceva l’operaio nella nebbia lombarda, sognava la domenica per fuggire sulle Alpi a “ritrovare se stesso”, che è senza dubbio una frase fatta ma lo è di meno se pensi a un ragazzo di diciannove anni che va ad appendersi in parete per un paio di giorni, da solo o con un compagno di cordata con il quale scambiarsi una parola all’ora. Poi, come tutti, ritornava, e si godeva la doccia e un letto comodo. Ma la distanza l’aveva misurata tutta intera, fino all’ultima spanna percorribile.
Qual è la “giusta distanza”? Credo che ognuno alla sua maniera – anche se non è Bonatti, o il Bruno delle Otto montagne – l’abbia cercata anche se non esiste, non è quantificabile. È una ricerca, un tentativo, un disagio benefico. Ripensando al mio lavoro, per esempio, parecchio eccentrico rispetto alla vita di redazione e al normale cursus professionale dei giornalisti, capisco quanto abbia contato, anche nella scrittura (in difesa della mia scrittura, voglio dire), la ricerca di una distanza. Non saprei misurarla, a volte mi è parsa minima, a volte notevole, comunque è stato importante cercarla. Cuore, per esempio, e la satira in genere, sono stati sicuramente la mia maniera di inseguire la giusta distanza. Credo che ognuno l’abbia cercata o la stia cercando, nella vita, chissà in quante maniere differenti, con quali successi e insuccessi, quante uscite di strada e quante fughe vittoriose.

PS – Secondo me anche Schlein, che proprio non vuole andare da Bruno Vespa, è alle prese con il problema della giusta distanza.