La malagestione del progetto Life Ursus e la mancata assunzione di responsabilità da parte della politica.

Animale solitario, l’orso alpino incute timore per la sua tozza ma agile stazza e simboleggia la selvatichezza e indomabilità per antonomasia; onnivoro come l’uomo, è diventato paradossalmente l’animale più dolce e familiare nell’immaginario collettivo: molti di noi infatti da piccoli hanno ricevuto in dono un orsacchiotto di peluche che poi è diventato il nostro oggetto transizionale, il nostro fidato e rassicurante compagno per affrontare le paure infantili tenendolo accanto a noi e accarezzandolo.

La tragica morte del giovane Andrea Papi nei giorni scorsi, sbranato dall’orsa JJ4 nei boschi sopra l’abitato di Caldes, proprio per l’eccezionalità e drammaticità dell’evento ha costituito un brusco risveglio e un trauma collettivo, contribuendo a rinfocolare le polemiche per la modalità con la quale dalla fine degli Anni Novanta è stato attuato e gestito il progetto Life Ursus di reintroduzione dell’orso bruno nelle valli del Trentino occidentale, in un territorio fortemente antropizzato, dove i boschi e le praterie alpine sono frequentati da pastori, boscaioli, raccoglitori e turisti, territorio che ha perso quel carattere di natura selvaggia che aveva un tempo, quando la presenza dell’orso alpino nelle valli limitrofe del Brenta settentrionale era stanziale, salvo poi andare incontro ad una graduale quanto drastica semi-estinzione. Basti pensare che nei primi anni Novanta ne erano stati censiti non più di 6 esemplari.

Di per sé quindi il progetto di importare alcuni esemplari dalla Slovenia per favorirne il ripopolamento aveva un senso, ma certamente si sarebbe dovuto coinvolgere fin da subito la popolazione locale nella gestione del progetto, in modo da renderla collaborativa e non refrattaria o ostile, infatti si sono sottovalutate le conseguenze di una presenza sempre più crescente di orsi sulle attività umane e sulla stessa sicurezza di chi frequenta i boschi a vario titolo, per lavoro o svago. Al fine di una corretta gestione bisognava fare un regolare censimento, dotare costantemente gli esemplari di radiocollare sempre attivo, informare ed educare la popolazione residente, i pastori e i turisti sulle corrette pratiche preventive da attuare e sui comportamenti da tenere, sia durante un eventuale incontro ravvicinato col plantigrado, sia allo scopo di non favorirne la confidenza con l’uomo e il suo avvicinamento ai centri abitati, sostenendo con congrui indennizzi gli allevatori per la perdita economica dovuta agli animali sbranati; soprattutto si sarebbe dovuto contenerne il numero, perché è innegabile che sebbene alcune delle operazioni sopra ricordate siano state messe in atto, sotto questo aspetto il progetto è sfuggito di mano e coloro che a vario titolo avevano compiti e responsabilità hanno latitato, in primo luogo i decisori politici, che hanno fatto sentire la loro voce ed emesso decreti di cattura di esemplari “problematici” sempre e solo dopo i casi delle pur ripetute aggressioni a persone. Ora, la modalità del contenimento della fauna ursina (cattura e spostamento o abbattimento?) come si sa è ora oggetto di controversie e discussioni, non solo tra esperti, ma anche e soprattutto tra opposti schieramenti pervasi da visioni ideologiche preconcette e talora da estremismi fanatici ed irrazionali, derivanti in alcuni casi da una concezione romantica ed idealizzata della natura selvaggia e incapaci di comprendere i problemi che invece le genti di montagna conoscono bene, per non aver mai vissuto stabilmente in montagna e convissuto con il suo ambiente severo e difficile.

Certamente nella fase di avvio del progetto Life Ursus oltre alle ragioni di salvaguardia e ripopolamento di una specie in via di estinzione in Trentino si è pensato ai possibili effetti positivi sul turismo, offrendo un’ulteriore attrattiva ai frequentatori dei boschi, la possibilità di vedere o di fotografare l’orso, ma senza fare tesoro dell’esperienza maturata in altri contesti, come in Slovenia (dove oltre alla caccia fotografica si praticano la selezione e l’abbattimento al fine di ridurre e mantenere costante il numero dei plantigradi) o negli Stati Uniti (parco di Yellowstone), dove comunque l’orso vive in grandi spazi a bassissima densità di popolazione umana e di presenza di centri abitati, o come nel più vicino parco nazionale d’Abruzzo, dove è stanziale l’orso bruno marsicano.

Orso Bruno marsicano

Soprattutto non si è fatto riferimento alla nostra storia passata, infatti esiste una ricca mole di fonti e documenti anche fotografici di come ancora all’inizio dell’Ottocento la presenza dell’orso costituisse un serio problema per le comunità alpine del Trentino occidentale e in particolare per le valli limitrofe del Brenta settentrionale e dalla Campa (val di Tovel, valle di Santa Maria Flavona, valle dello Sporeggio), tanto che l’amministrazione austriaca decise di istituire un premio in denaro ai cacciatori del Tirolo meridionale dove la presenza del plantigrado era stanziale.

Così accade che certa politica, sia a livello locale che nazionale, non avendo a suo tempo saputo gestire adeguatamente il problema affidandosi alle decisioni degli esperti, cioè alla scienza, adesso sull’onda della recente tragedia cavalcano in maniera strumentale e demagogica la linea dura invocando il decreto del Tar che autorizzi la soppressione di jj4, decisione che avrebbe tutto il sapore di una legge del contrappasso verso un animale che ha agito secondo il suo istinto animale, non da «animal rationale», secondo la definizione aristotelica. In questo senso bene ha fatto l’ordine dei veterinari ad ammonire sui rischi di radiazione dall’albo il professionista che praticasse l’iniezione letale – impropriamente chiamata in questo caso eutanasia – su un animale che non è malato terminale, non è sofferente e non costituisce più un pericolo per la pubblica incolumità essendo ormai in cattività. Dopo di che si può ragionare se sia preferibile destinare un orso, il cui habitat sono i grandi spazi boscati e la possibilità di effettuare notevoli spostamenti, a sopravvivere in un’area recintata. Una soluzione ragionevole potrebbe essere spostare JJ4 al Parco faunistico di Spormaggiore. Anche la burocrazia e il conflitto di attribuzione di competenze e responsabilità tra istituzioni politiche, enti locali, governo nazionale, tribunale regionale ha avuto la sua parte di responsabilità, insieme alle note lentezze della macchina amministrativa italiana, ai bizantinismi dei decreti e ai conflitti di attribuzione delle responsabilità, come è accaduto con i pronunciamenti di Ispra o con le sentenze del Tar e del Consiglio di stato che annullavano precedenti decreti della giunta provinciale.

Perciò la questione della gestione dei plantigradi in Trentino, che pure vanta una tradizione di buona amministrazione, dopo la tragica morte del povero Andrea Papi anziché essere affrontata con ragionevolezza, saggia lungimiranza e previsione, anche per il rispetto dovuto alla sua famiglia, che invoca giustizia, riconoscimento degli errori commessi e dunque un’assunzione di responsabilità da parte di coloro che hanno voluto, attuato e gestito nel tempo il progetto Life Ursus, si è trasformata in un’occasione di scontri, rimpalli di accuse e polemiche, raggiungendo il punto più basso sui social, dove il “dibattito” si è contraddistinto per il particolare carico di livore, nefandezze verbali, carenza di argomenti, stolida ignoranza e insensibilità. E intanto gli orsi stanno a guardare

Giovanni Widmann insegna filosofia e storia al liceo Russell di Cles