La montagna incantata…

Non separa, non ostacola, se una sua cima viene conquistata non appartiene al conquistatore L’autore, nato alle pendici del Vesuvio, ne ha sondato i segreti, la solitudine e i rischi. Perché arrivare in vetta, come leggerete nelle prossime pagine, è un’ossessione che può costare caro. Di Erri De Luca. Copyright: La Repubblica/Robinson

Erri De Luca

La superficie emersa della terra ha due confini, uno con il mare, l’altro con il cielo. Ma dove iniziano le onde la terra prosegue ugualmente scendendo nei fondali. Sulle cime dei monti invece il confine è netto: oltre proseguono le ali.
Dalla geologia si sa che gli strati della terra in collisione spingono la superficie verso l’alto. Le catene montuose continuano a impennarsi. Sono nato in una città che ha per altura dominante la bocca spalancata di un vulcano. La sua altezza è quota provvisoria raggiunta da rigurgiti di eruzioni. La sua forma di pane lievitato segna per la città l’origine e l’Oriente.
Mi ci portò mio padre in un giorno d’inverno. Salimmo fino al bordo del cratere, più che una cima una decapitazione. C’era neve, le scarpe cittadine s’inzupparono, mi disse di correre per battere il freddo. Era stato nel corpo degli alpini in Albania durante la peggiore delle guerre. Non ne raccontava, però le montagne gli avevano salvato qualcosa di quel tempo, disperdendo la sua angoscia nella loro indifferenza. Mi ha insegnato un canto: « Sui monti della Grecia c’è la Voiussa dal sangue degli alpini è tutta rossa».
Un filosofo greco si voleva spiegare cosa ci facessero i fossili marini e le conchiglie in mezzo alle montagne. Immaginò una battaglia colossale della terra contro il mare e al termine le onde si erano ritirate sconfitte, lasciando i loro tesori di madreperla a secco. In quel tempo il desiderio di spiegarsi il mondo giocava con ipotesi grandiose.

Wasenhorn. Foto: Sergio Ruzzenenti


Si sa che successe l’opposto: le montagne sono state espulse dal fondo del mare, scaraventate lentamente in alto. Così quando scalo una parete, sto assecondando il verso della terra, che si sporge in su fino al bordo che la separa dalla sua atmosfera. Oltre la cima inizia sua maestà l’infinito.
Da fondo valle le montagne sembrano muraglie di uno sbarramento. Ma se ci si inoltra sui versanti, si trovano passaggi di ogni tipo per oltrepassarle. Una cosa perciò non fanno le montagne: separare. Non lo fa neanche il mare, che Omero definì una strada liquida.
Le nostre Alpi non hanno fermato e scoraggiato nessuna invasione. Posso salire sulla cima più alta, il Monte Bianco, poi scendere dal versante opposto e questo vale per altre innumerevoli montagne di quell’arco.
Le cronache ogni tanto informano che il valico del Brennero è stato chiuso per serrata contro gli spostamenti migratori. Chiudono cioè 50 metri di carreggiata: e tutto il resto intorno? Si possono issare muri di contenimento in pianura, sulle montagne no. Restano spazio di libero passaggio anche se si pretende che segnino un confine.
Restano spazio libero: se vado a scalare la parete nord della Cima Grande di Lavaredo, per citarne una celebre, non devo chiedere il permesso a nessuno e non attraverso proprietà private.
Chi sbarcava su un’isola per primo, l’annetteva alla sua patria di origine. Chi è salito per primo su una cima, non ha potuto fare altro che piantarci una sua stoffa colorata, senza poter accampare alcun diritto di possesso.
L’alpinismo è stato l’ultimo paragrafo della geografia. Cominciò quando le terre emerse erano tutte quante visitate e cartografate. Mancavano solo quelle al registro delle esplorazioni.

Wasenhorn. Foto: Sergio Ruzzenenti


Andavano prima di tutto identificate. Un geografo e colonnello del Regno Unito, il gallese George Everest, appiccicò il suo nome alla montagna che fino allora aveva solo un numero, il 15. Curioso che non fu lui a misurarla e a stabilire che fosse la maggiore.
Una volta raggiunte le sommità maggiori, l’alpinismo si dedicò a salirle da tutti i versanti, in cerca delle difficoltà supplementari. Stabilì gradi e s’impegnò a praticarle anche nelle peggiori condizioni, le invernali.
Fin dall’inizio gli alpinisti entrarono nel vortice delle competizioni tra loro e dei primati. Una giuria internazionale, della quale ho avuto l’onore di essere membro, oggi assegna il premio “Piolets d’or” alle più ardite imprese dell’annata, di solito si tratta di salite nuove su pareti estreme. Si affrontano pericoli imprevisti su linee di scalata sconosciute.
Ma pure le montagne più frequentate, niente hanno a che vedere con un terreno di gioco e non stanno lì piantate dalle aziende di soggiorno per vezzeggiare turisti. Sono confini pieni di imprevisti e nessuna esperienza, attrezzatura, abilità può garantire l’incolumità. Muoiono gli esperti come i meno provvisti. I materiali tecnici sono migliorati e nuovi dispositivi aiutano l’escursionista e l’alpinista, ma si muore all’antica oggi come agli inizi. Valanghe, fulmini, crepacci, crollo di blocchi di ghiaccio che spazzano i pendii, sassi che precipitano dall’alto, appigli che si staccano, passi falsi, congelamenti, nebbie, sfinimenti: non è un campo giochi.
Non è spavalderia l’andarci, né schizzo di follìa. La specie umana in ogni campo cerca di forzare i limiti della sua conoscenza, di ciò che sia possibile. In alpinismo questo coincide con un aumento del rischio, migliorato da un più minuzioso addestramento atletico. Alex Honnold che nel 2017 scala senza alcuna protezione i difficili mille metri del Capitan, in Yosemite Valley, California, sposta la soglia di ciò che è possibile.
Impossibile in alpinismo è un’impresa fino al momento prima che venga compiuta. Ueli Steck che ha salito in solitaria la parete Sud dell’Annapurna in Himalaya, discendendo per la stessa via in piena notte, sfondò in quella ventina di ore il soffitto dell’inimmaginabile.

Gletscherhorn. Foto: Sergio Ruzzenenti


Salgo in montagna per desiderio di allontanamento. Mi procuro un giro in un posto alleggerito dalla nostra presenza. Sto da solo dentro un’immensità che offre la giusta misura alla mia minuscola taglia. Mi mette pace al cranio sentirmi il battito del cuore nelle orecchie, esalta i miei polmoni la vastità dell’aria da respirare a mantice. Sto in un luogo ch’era così prima del dilagare della specie umana e tale resterà dopo la nostra era. Sto nella perfetta estraneità della natura, non ospite ma intruso senza invito, senza lasciapassare né salvacondotto.
Ho lo scrupolo di non lasciare impronte. Non dura la traccia che batto sulla neve, il buco della piccozza sullo specchio del ghiaccio. Attraverso un paesaggio dove neanche il lichene si è fermato.
Raggiungo la massima distanza dal punto di partenza. Quella distanza, che sia una cima o altro, non è arrivo, è solamente arresto e punto d’inversione della marcia. Lassù non c’è il traguardo, che invece consiste nel rientro.
Non c’è silenzio in montagna, c’è la corsa del vento, di acque che si buttano in discesa, c’è il rumore dei passi e il fiato che si appoggia su di loro. Gli occhi guardano in terra, non possono distrarsi dai centimetri. A far da sentinella ci pensano le orecchie, in guardia, attente anche dietro le spalle.
Vado anche con un compagno di cordata, ma più spesso mi avvio da solo dove i sentieri smettono e c’è da fissare a mente dei punti di riferimento per la via di ritorno. Chi non si è perso neanche una volta in montagna, neanche si è trovato dirimpetto a se stesso e senza specchio.

Val masino Foto: Michele Comi


A giustifica dico che si tratta di una gita per causa di bellezza, che non è la vista panoramica di un paesaggio. Bellezza è forza di natura che innalza torri, selle, denti, creste e castelli in aria. Vibra di forza trattenuta la superficie della bellezza.
Uno che viene da una terra scossa sente il bradisismo che solleva giganti e li sgretola sotto i colpi dei fulmini. Uno che viene dal mare sente di stare sopra scogli emersi.
Raccolgo frantumi quando somigliano a lettere dell’alfabeto, resto lettore pure senza libro.
Ho un amico che scala alla maniera nuda, senza sicura, corda, protezione. Va su pareti che conosce a fondo. Ci sono giorni che il suo corpo desidera proprio quella sfrontata libertà e pure la parete è pronta, asciutta. Sono giorni improvvisi di energia prepotente, se ne accorge al risveglio.
Infila le calzature adatte e scala con il massimo di precisione e di concentrazione. L’effetto però non è di una spasmodica tensione, anzi raggiunge il massimo di fluidità. Solo in quel modo, detto solitaria integrale, ottiene quello stato di grazia e di scioltezza. Non avvisa nessuno prima o dopo.
Per amicizia mi mette a parte dell’intimità tra lui e la roccia, tra se stesso e il vuoto.
Anche questo è muoversi in montagna. Muoversi per raggiungere e voltarsi per tornare al punto di partenza al termine di un giro sopra la superficie di un confine.

Erri De Luca