L’ecologia dei popoli, intervista a Matteo Righetto

Matteo Righetto è membro del comitato etico-scientifico di Mountain Wildernerness. 
Vive a Padova ma il suo cuore è a Col, in italiano Colle Santa Lucia, in alta Val Fiorentina nelle Dolomiti riconosciute patrimonio Unesco.
È lì che lo scrittore e docente di lettere Matteo Righetto, 45 anni, che alle sue origini ladine ci tiene, torna appena può.
Sono queste montagne in cui «ogni stagione ha i suoi colori, ogni mese i suoi odori, ogni giorno i suoi cieli» a suggerirgli le storie che sono poi diventati i suoi romanzi tradotti in moltissime lingue e apprezzati da un pubblico trasversale.
La pelle dell’Orso, da poco tornato in libreria per TEA Edizioni, e approdato sul grande schermo con Marco Paolini, è ambientato proprio in queste valli con vista Pelmo e Civetta dove si parla una lingua antica – il ladino – che come un fiore raro, retaggio di antiche glaciazioni, ha trovato qui il suo habitat aggrappata ai bastioni di roccia calcarea che sfidano il cielo.
Il ladino, una lingua reto-romanica nata dall’incontro tra Reti, che già abitavano la regione prima della romanizzazione, e Latini, compare con alcuni termini nelle sue pagine.
Invitato a partecipare al convegno “Ripensare alla montagna” organizzato dal Cai Biella in occasione dei 30 anni di Mountain Wilderness, Righetto che è tra i 100 scrittori testimonial di Greenpeace e ha vinto il “Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo 2016” e il “Premio Ghiande 2017” del Festival dell’Ambiente di Torino, non ha esitato a parlare di una «ecologia dei popoli» riferita proprio alla necessità di salvaguardia di lingue, usi e tradizioni. Da questo argomento Montagne360 inizia una chiacchierata con l’autore.

 

Matteo Righetto

 

Pubblichiamo di seguito un’intervista a Matteo Righetto, per gentile concessione di Montagne360. Di Andrea Formagnana

Alta Via Dolomiti 1 30039 Averau e Pelmo. Foto: Sergio Ruzzenenti

Matteo, cosa significa «ecologia dei popoli»? Come si preservano le identità oggi evitando di cadere nella trappola degli stereotipi di una certa visione romantica?
Per preservare e salvaguardare la cultura, qualunque forma di cultura, bisogna anzitutto impegnarsi a viverla direttamente e farla conoscere, insomma, sia “frequentarla” attivamente che divulgarne segreti e fascino, per così dire. Questo lo dico perché tra le vallate alpine a volte mi trovo di fronte a dei paradossi per cui qualcuno si ostina pervicacemente a rivendicare aiuti economici e sovvenzioni per questioni culturali che per primo non pratica o conosce solo marginalmente. Malafede? Non credo, ma ignoranza e approssimazione che rivelano scarsa credibilità, questo purtroppo sì. Io penso che per evitare ogni deriva romantica o peggio: retorica, sia anzitutto necessario affrontare i problemi che affliggono la montagna con un approccio ecologico, ossia considerando anche le identità culturali come uno degli infiniti fenomeni in relazione diretta fra loro nello stesso ecosistema. Considerando quindi la tutela del patrimonio linguistico (ad esempio ladino) al pari della salvaguardia della lince e dello scoiattolo rosso, per essere chiari. Poiché si tratta di fenomeni che testimoniano una specificità biologico-culturale di un territorio. La lingua, gli usi, le tradizioni di una comunità non sono una cosa a sé stante, piovuta dal cielo, bensì un bagaglio sapienziale strettamente e indissolubilmente legato alla flora, alla fauna, al clima, alla metreologia, alla cucina di un territorio. Sono elementi antropici, ma naturalmente integrati in un preciso ecosistema. In questo senso ho parlato di “ecologia dei popoli”. Perché anche le culture locali hanno a che fare con la biodiversità soprattutto in relazione a un mondo sempre più omologato e sciatto, privo di identità e caratteri propri.
Mi pare ad esempio che il nuovo DDL Salvaborghi in questo senso rappresenti una buona opportunità e una visione finalmente complessiva del problema.
Va anche detto per onestà intellettuale che gli interventi utili e necessari per cercare di preservare le ricchezze rappresentate dalle identità culturali e linguistiche, devono sì partire dalla tutela perseguita attraverso una serie di stanziamenti economici e agevolazioni ad uso anche degli Istituti culturali (quelli ladini, ad esempio) ma sono altresì convinto che ciò serva a poco se si tratta di uno sforzo mirato esclusivamente all’organizzazione di qualche evento autoreferenziale e passatista o all’allestimento fine a se stesso di sale con manichini in costume tradizionale. Non confondiamo per favore la cultura con il solo aspetto folklorico. Lo dico perché spesso tra i monti non c’è alcuna consapevolezza di cosa significhi fare cultura e fare sistema insieme a tutte le forze presenti. La cultura vive e sopravvive quando ha qualcosa da dire agli uomini del presente e del futuro, di ogni provenienza, non soltanto agli indigeni nostalgici del proprio passato. In tal senso le comunità montane devono fare molti più sforzi.
Perché le nostre tradizioni sono preziose e uniche? Cosa hanno esse da proporre e insegnare agli uomini di oggi? Sono queste le domande che dovrebbero porsi i montanari che vogliono tramandare con efficacia e successo il loro straordinario patrimonio culturale. Quando penso alla salvaguardia della montagna e delle sue identità mi viene in mente una frase di Gustav Mahler, il grande compositore che amava le Dolomiti. Disse Mahler: “Tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”.

Vedi un nesso tra il tema della preservazione dell’ambiente e quello della tutela delle identità?
Il nesso è evidente e non riconoscerlo sarebbe pernicioso. Mi spiego. Quando si parla di ambiente e della sua tutela, si deve necessariamente avere un approccio sistemico che consideri ogni singolo fenomeno come interdipendente e in relazione diretta con tutto il resto. Parlare di preservazione dell’ambiente senza considerare la ricchezza delle identità culturali come qualcosa che fa parte tout court di quello stesso ambiente, è miope e culturalmente retrogrado. Così facendo si compromette tutto il “sistema” e si fallisce inevitabilmente su entrambi i fronti.

A volte, proprio sui temi ambientali, si assiste a quello che potrebbe apparire un paradosso. Popolazioni locali schierate con chi propone la vecchia ricetta dello sviluppo “facile” che ignora i segnali che la natura ci mette ogni giorno di fronte, dall’altra parte cittadini mobilitati in difesa della wilderness. Come aprire un dialogo?
Purtroppo ciò che dici è più frequente di quanto si possa immaginare. La difesa della wilderness, valore irrinunciabile dopo decenni di consumo del suolo e violenza nei confronti del nostro paesaggio montano, richiede anzitutto un’azione culturale fatta di educazione civica e ambientale e strutturata in progetti didattici nelle scuole e iniziative di ampio respiro e lungo termine presso le stesse comunità montane. Nella società in cui viviamo è sempre più difficile riconoscere il tempo e la pazienza come valori assoluti. La frenesia che ci pervade, la fretta, il rumore continuo e assordante che si insinua nella nostra quotidianità è direttamente proporzionale alla ricerca di benessere immediato, e quindi del profitto, rapido e massimo. E le comunità montane non ne sono affatto immuni. Come tutti i fenomeni culturali profondi e i cambiamenti radicali paradigmatici, sono necessari invece tempo e pazienza. Concretamente credo che si potrebbe aprire un dialogo alla luce di ciò che ci attende in futuro se non torniamo a un rapporto consapevole con il territorio. Il suo sfruttamento non paga. Dà un risultato immediato apparente ma deleterio e devastante a lungo termine. Per tutti.

Che significato ha per te il termine wilderness?
Il wilderness puro ha un fascino indescrivibile, questo è chiaro. Personalmente però, lo dico anche da umanista, non riesco e non voglio concepire una dimensione naturale senza l’uomo. Non sono animalista, non credo allo zoocentrismo, né al fitocentrismo che vanno tanto di moda oggigiorno. L’uomo è parte integrante della natura, al netto dei disastri che in essa ha causato, ma questo è un altro discorso. Per me il concetto di wilderness non riguarda una dimensione idilliaca e quindi assolutamente selvaggia e incontaminata rispetto al fenomeno antropico, bensì una dimensione naturale dove uomo e paesaggio convivono e coesistono perfettamente alla ricerca di un reciproco equilibrio. La penso come il poeta Zanzotto, il quale definì questo concetto con il neologismo: “biologale”. Anche il mio maestro Mario Rigoni Stern parlava spesso della perfezione rappresentata dall’etica forestale dei montanari, cioè quel modo di vivere nella natura prendendo però solo il necessario da essa, ponendosi quindi dei limiti equi e consapevoli. In tal senso Rigoni diceva che il bosco più bello è quello curato e coltivato come un orto, e aggiungeva che è la natura stessa, per il mantenimento del suo equilibrio, che richiede tacitamente l’intervento sapiente dell’uomo.

Alta Via Dolomiti 5 Torri. Foto: Sergio Ruzzenenti

Con La pelle dell’Orso, Apri gli Occhi e Dove porta la neve, pubblicati da TEA hai realizzato una trilogia in cui la montagna non è solo uno sfondo in cui si muovono i tuoi personaggi. In L’anima della frontiera (Mondadori, 2017) la montagna, se si vuole, acquista un ruolo da protagonista ancora maggiore. La montagna è frontiera, ma la montagna si manifesta anche come anima e sembra quasi partecipare alle vicissitudini della protagonista umana.
Cos’è per te la montagna?
Parlando del suo Texas, lo scrittore Joe R. Lansdale lo ha definito “uno stato mentale”. Ecco, per me la montagna è innanzitutto qualcosa del genere, cioè una dimensione esistenziale dove ricerco e spesso ritrovo me stesso. Ciò che vivo e provo andando per monti è una serie di emozioni e sentimenti che riguardano la duplice faccia del nostro essere: quella epica e quella lirica. La prima riguarda la sfera di esperienze e sensazioni che si incarnano quando si ascende in silenzio, si fatica, si ammirano gli scenari sublimi, ci si incanta di fronte alla meraviglia della flora e della fauna selvatica, si soffre, si ansima, ci si avventura, si cade, perfino. La seconda riguarda tutta la riflessione intima che si accende dentro di noi attraverso queste esperienze esteriori. La montagna è quindi uno specchio della nostra coscienza. Mi fa sentire vivo e parte del Tutto. E’ il luogo delle grandi domande. Ecco, in un mondo dove tutti credono di avere sempre in tasca le risposte giuste, io in montagna trovo le domande!

Sei membro del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna. Nell’ultimo anno grazie al successo di romanzi come i tuoi o quelli di Paolo Cognetti le “terre alte” sono tornate protagoniste nelle librerie. Qual è il ruolo di scrittori e intellettuali – tu collabori anche con Il Foglio – nel divulgare i valori della montagna?
Non so quale sia il ruolo degli scrittori e degli intellettuali nel divulgare i valori della montagna. Io personalmente scrivo romanzi di montagna da un po’ di tempo e non mi sono mai posto obiettivi educativi o etici, né l’ho mai fatto per seguire un’onda che ultimamente qualcuno ha saputo cavalcare anche con grande astuzia. Scrivo di montagna perché è ciò che sento di dover fare, è una cosa che risponde alla mia sensibilità d’autore, alla mia cifra poetica, per così dire. In fin dei conti sono un romanziere, non un geografo o un naturalista. Se poi i miei libri possono essere utili a sensibilizzare i lettori e la società orientandoli verso una maggiore consapevolezza ecologica nei confronti della montagna, allora ne sono felicissimo. Ma onestamente non ho la presunzione di pensare che in questa società scrittori e intellettuali abbiano ancora la capacità di influenzare la cultura di un Paese. Quei tempi sono finiti da un pezzo.

Per il 2018 i lettori quali sorprese possono attendersi?
Nella prima parte dell’anno uscirà per Mondadori il sequel di “L’anima della frontiera”. Sarà il secondo volume della trilogia, e continueremo quindi a seguire Jole e a vivere la sua storia epica e avventurosa ambientata sulle montagne venete. Contestualmente sia “La pelle dell’orso” che “L’anima della frontiera” godranno di un percorso internazionale, “L’anima della frontiera” in particolare, vedrà la luce in moltissimi Paesi, tra cui Stati Uniti, Canada, Australia, Gran Bretagna, Giappone.