Lettera aperta al Presidente della Regione Toscana sulla sicurezza nelle cave delle Apuane

L’attività estrattiva del marmo sulle Alpi Apuane non provoca soltanto gravissimi problemi ambientali per il contesto territoriale interessato, ma riveste anche conseguenze pesantissime sul fronte della sicurezza nel lavoro, come purtroppo tanti incidenti

Pubblichiamo la lettera aperta inviata in proposito al Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi dal Gruppo d’Intervento Giuridico onlus.

Massa, 14 maggio 2016

Al Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi
e p.c. al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Massa Aldo Giubilaro

Gentile Presidente,

leggo del Suo impegno sulla sicurezza in cava: «aumentare i controlli, fissare regole e sospendere l’attività se non vengono rispettate le regole della sicurezza previste dalla legge 35».
Mi permetto di farLe presente alcuni aspetti a mio avviso non trascurabili allorché si affronta il tema della sicurezza.

Parto da due affermazioni contenute nella Sua dichiarazione:
a) gli incidenti non possono essere attribuiti alla fatalità
b) non esiste il rispetto delle regole, e la Regione metterà risorse per intensificare i controlli sul corretto rispetto delle regole.
Anche a Lei è dunque chiaro che siamo di fronte a violazioni delle regole e delle normative.
Nel caso tragico della cava Antonioli, i giornali hanno scritto che non è stato trovato il piano della sicurezza. È da considerarsi una fatalità?

Alcune riflessioni sulle concause della mancata “sicurezza”.

A) I TECNICI: estensori di piani, responsabili della sicurezza, direttori dei lavori, spesso non rispettano il piano estrattivo confidando sulla sistematica assenza dei controlli.
Vorrei innanzitutto rilevare che, mentre l’Ordine dei Geologi sottolinea l’importanza di un redattore di piani estrattivi che sia laureato in geologia, o comunque iscritto all’albo, e responsabile quantomeno delle relazioni geologica e idrogeologica, di fatto la maggior parte dei piani estrattivi delle Apuane è stata redatta da un ingegnere minerario, che troviamo anche responsabile della sicurezza o direttore dei lavori.
E’ evidente che deve essere fatta chiarezza sulle diverse competenze e soprattutto sarà necessario e opportuno porre LIMITI al numero degli incarichi, considerate la loro delicatezza e la necessità di una presenza non saltuaria sul campo.
Ogni piano estrattivo viene valutato dalla ASL PISLL (Prevenzione Igiene e Sicurezza sui Luoghi di Lavoro) che fornisce precise indicazioni. Tale piano spesso NON viene seguito, perché si scava anche in aree non consentite e, solitamente, la giustificazione che si legge nella documentazione relativa alla pronuncia di compatibilità ambientale (obbligatoria per le cave del Parco delle Alpi Apuane) è motivata dalla messa in sicurezza autorizzata dalla ASL e dal Comune. Capita però che i due enti non siano MAI stati contattati dalla Ditta.
Viceversa, quando la ASL PISLL chiede interventi precisi per la messa in sicurezza, i lavori non vengono eseguiti, tardano anni e si fanno finalmente nel momento in cui la ASL PISLL minaccia il ricorso alla Procura: ne sono esempio le lettere conservate nell’archivio del Comune di Massa relative della cava Lavagnina, fermata oggi dal Comune perché la ASL ha chiesto interventi per la sicurezza del paese di Casette.
La violazione del piano estrattivo, risolta dal Parco per le cave al suo interno con una multa di 400 euro (oggi raddoppiata), ha due conseguenze: il mancato controllo della sicurezza da parte degli organi preposti e la devastazione dell’ambiente.
Nel caso delle cave in galleria (anche queste non sottoposte al controllo dalle amministrazioni locali e che sfuggono agli occhi degli ambientalisti), grazie all’intervento dei SOLI 4 guardiaparco che intervengono su segnalazione dei privati e dovrebbero controllare le 70-72 cave attive nel Parco, si è potuto verificare, ad esempio, quanto la cava Padulello (Massa) aveva scavato per due anni, pur in assenza di autorizzazione e che nella cava Romana (Massa) vi sono due gallerie non presenti nel piano di coltivazione.
Attendiamo dunque sopralluoghi estesi, in primis per alcune gallerie abusive già segnalate alla Procura.

Come può la ASL garantire la sicurezza dei lavoratori se il piano non viene rispettato?
E’ evidente che la responsabilità RICADE, oltre che sul concessionario, sul tecnico direttore dei lavori.
Come può l’Ordine agire nei confronti di queste violazioni se gli enti non gli inviano le segnalazioni?
Come può l’Ente Parco accettare che un professionista presenti per due volte un piano non corrispondente con la realtà (caso recente: cava Valsora, Massa)?
Ci si limiterà a chiedere perizie giurate?
Mi sembra evidente che concessionari e tecnici VIOLANO la legge e che, così facendo, mettono in pericolo la sicurezza dei lavoratori e della popolazione.

B) GLI OPERATORI DI CAVA.

Sono certamente consapevoli del fatto che stanno eseguendo lavori non previsti nel piano di lavorazione approvato. Del resto, in caso di sopralluoghi (sempre annunciati, a parte qualche caso recente) devono mascherare gli abusi giustapponendo massi a coprire il vuoto o posizionando “tende”.
Sono certamente consapevoli di violare la legge quando sversano olio nel ravaneto, quando la vasca che dovrebbe contenere le acque di taglio intrise di marmettola viene forata in modo che l’acqua con polvere di marmo venga sversata nel piazzale e nel ravaneto (contro le prescrizioni ARPAT).
Un tale comportamento fuori legge comporta che il Comune di Massa paghi 300.000 euro l’anno per filtri e manutenzione all’acquedotto del Cartaro, mentre il Comune di Carrara si attesta sui 53.000 euro l’anno, perché lì, quando piove, si pompa l’acqua dai pozzi situati in pianura, staccando dalla rete l’acquedotto principale reso imbevibile dalla marmettola.
Come ha scritto l’Arpat, è complesso individuare i “colpevoli” nella nostra area caratterizzata dal carsismo: al Cartaro (acquedotto di Massa) confluiscono anche le acque di cave del bacino di Carrara; al Frigido (la sorgente più importante della Toscana) confluiscono le acque dei bacini di Carcaraia (Garfagnana) e dell’Altissimo (Versilia).
Sul Tirreno del 9 maggio Gaia dichiara che per Carrara è stato “evidenziato un determinato e ben individuato bacino estrattivo che interferisce con le sorgenti di Torano, soprattutto durante le attività di taglio tradizionale ad acqua”: qui la causa è certa, ma nessun Ente interviene a sanare una situazione di illegalità.
Sono consapevoli di non rispettare le regole sull’orario di lavoro quando scavano da mattina a sera, sabato e domenica compresi. Perché lo fanno? Perché ricevono lo straordinario al nero? Perché in alcune cave hanno un secondo stipendio al nero? Esistono segnalazioni in proposito alla Procura.
L’orario lungo vale anche per i camionisti: è sufficiente visitare un qualunque deposito di camion per accorgersi che sono partiti la mattina all’alba e la sera tornano molto tardi. Un orario lungo, certamente funzionale anche a “saltare” la pesa pubblica. La ricompensa extra per gli autisti è spesso un blocco di marmo da vendere direttamente.

C) I COSPICUI GUADAGNI DEI CONCESSIONARI (indifferenti alla sicurezza per accumulare sempre di più: “costringono a fare gli straordinari” ha dichiarato in questi giorni un cavatore) sono consentiti dai Comuni e dalla legislazione regionale.

L’inchiesta recente della Procura limitata ad alcune ditte ha confermato che esiste un’evasione fiscale del 70% e ciò nonostante i bilanci UFFICIALI delle medesime siano stratosferici. Alcuni esempi recenti:
Il Tirreno (4 aprile 2016): 800.000 euro di utili al netto delle tasse per la Marmi Carrara (statuario); 8.500.000 per la Sagevan.
Il Tirreno (5 settembre 2015): utili per oltre 7 milioni per la Franchi;
Il Tirreno 27 agosto 2015: oltre due milioni di utili per la Vennai di Lucchetti, anche senza Statuario e Calacata.
Perché questi enormi guadagni sul denunciato? Perché la materia prima, cioè le montagne che vengono “scapuzzate”, portate via, devastate NON COSTANO NULLA, grazie alla sconcertante normativa della Regione Toscana, secondo la quale i Comuni non possono chiedere più del 10% del valore del marmo estratto. E ciò nonostante le montagne non siano una materia prima riproducibile, e nonostante l’estrazione modifichi profondamente il paesaggio e anche l’ambiente!
Inoltre, a quale valore di mercato riferirsi? Il Tirreno del 23 aprile 2016 riporta che il Comune di Carrara ha alzato le tariffe del marmo: al top la cava 103 Calocara B con 630 euro di valore medio. Questo è il valore medio valutato dal Comune di Carrara e sul quale verranno pagati dall’azienda il 10% del contributo di estrazione e il 5% del canone di concessione (se non è un “bene estimato”).
Eppure, lo statuario viene venduto anche a 6-7.000 euro a tonnellata. Un cavatore ha dichiarato a RAI 1, in una recente trasmissione, che è stato venduto anche a 9.000 euro!
Il Procuratore di Massa è certamente molto più informato dei Comuni sul prezzo di vendita.
Costano in maniera considerevole anche le macchine (un milione di euro?), costano (meno) gli stipendi dei pochi operai che lavorano in cava, ma in un recente processo che coinvolgeva alcune importanti ditte di Carrara è stato dichiarato che il costo di estrazione in galleria è di 100 euro a tonnellata.

D) LE RESPONSABILITA’ GRAVI DELLA REGIONE

La Regione Toscana è passibile di danno erariale proprio per questo limite del 10%. Un secolo fa i concessionari che subappaltavano si assicuravano il settimo della produzione, dunque almeno il 14,3%. Nel 1992 un concessionario massese subappaltava una cava e in cambio chiedeva 50 milioni di affitto all’anno, 15.000 lire per ogni tonnellata di blocchi estratti e l’acquisto di materiale di cava … al prezzo ribassato di 380.000 lire a mc. Ma… era un privato!
Oggi il Comune di Massa riscuote 9,90 euro a tonnellata per ogni blocco che passa dalla pesa pubblica e 0,024 di canone annuo a mq.
La Regione è colpevole soprattutto di danno ambientale: danno alle persone, danno alla salute, danno all’economia, danno al territorio.
Il Rapporto estrattivo marmo in blocchi/marmo in scaglie che continua a ritenere valido, ancora oggi, nel 2016, 20/80 o 25/75, poteva essere giustificato a metà Ottocento, quando non esistevano le macchine tagliatrici e si usavano le mine per le varate.
Mantenerlo significa favorire la distruzione a solo beneficio dei produttori di carbonato di calcio.

Avere creato e mantenere un Parco Regionale con più di 70 cave attive è semplicemente ridicolo.
Autorizzare nel 2006, grazie al compromesso politico con gli imprenditori, di elaborare prima il piano del Parco e successivamente quello delle attività estrattive (su suggerimento di Erasmo D’Angelis) è dal punto di vista pianificatorio, un non senso.
Se si leggono i bilanci del Parco, non ci si può non sorprendere per l’intenso investimento in immobili. Come fa un Parco con 70-72 cave attive a CONTROLLARE con soli 4 guardiaparco, prossimi a ridursi a 3 per il prossimo pensionamento di uno di loro? Perché non procura lavoro, comprando meno immobili e assumendo qualche decina di guardiaparco che deve essere personale qualificato e preparato, consapevole di ciò che deve attestare?
Mantenere l’attività estrattiva in alcune aree, il Sagro ad esempio, ove esiste l’endemismo centaurea Montis Borle (una pianta che, in tutto il mondo, vive solo in questa ristretta area del Parco) è una follia: è noto che queste cave estraggono marmo fratturato di poco valore; esiste un problema di viabilità; i camionisti che trasportano il marmo (come ho inutilmente segnalato anche a Lei) fanno riferimento alla famiglia Muto della ‘ndrangheta.
Autorizzare nel recente PIT lo scavo sopra l’Antro del Corchia, un geosito di valenza mondiale, anche al di fuori del perimetro autorizzato, in deroga all’art.10 della Disciplina dei beni paesaggistici, (basta individuare specifiche modalità di coltivazione che riducano al minimo gli impatti sugli elementi della morfologia glaciale!) conferma le violazioni di legge di cui la Regione è responsabile.
Il ripristino ambientale che viene richiesto in tutte le autorizzazioni del Parco non ha senso: le montagne asportate possono essere rinaturalizzate solo dal tempo. Le concessione di ripristino ambientale autorizzate dal Parco con tanto di delibera specifica, sono state funzionali nel Comune di Vagli a favorire l’attività estrattiva. E’ il caso dell’ex cava Boana riaperta nel 2013 nonostante fosse addirittura situata all’interno del SIC 17. Un controllo effettuato a distanza di 19 mesi dalla concessione ha non solo mostrato violazioni delle prescrizioni Arpat, ma ha evidenziato che la cava aveva l’aspetto di un sito estrattivo e che non era stata eseguita alcuna opera di recupero ambientale. L’autorizzazione è stata sospesa pochi mesi fa.
La deroga inserita nel PIT a favore di Minucciano, per motivi socio-economici, di continuare a scavare anche a 1.600 metri con la concreta certezza di inquinare le sorgenti di Equi e di Forno (la più importante della Toscana) non ha giustificazioni.
Ridurre un PIT ad un piano estrattivo, consentendo ampliamenti delle aree estrattive all’interno del perimetro autorizzato fino al 30% del volume autorizzato, se l’autorizzazione è in scadenza e se è stato esaurito il quantitativo concesso, significa cedere alla logica del profitto di alcuni privati.
Con questa ultima versione del PIT, un vero colpo basso alla democrazia, intriso di infrazioni alle leggi dello Stato (che ci ha costretto a ricorrere al Presidente della Repubblica), la Regione ha rinunciato a pianificare, difendere il territorio, salvaguardare l’ambiente a favore dei pochi che fanno guadagni illeciti e mostruosi. Come possiamo ritenere che tali personaggi, che con il geologo Landucci e l’avv. Carcelli, grazie ad impiegati della Regione messi a loro disposizione, hanno riscritto il PIT a loro favore, potranno rispettare la sicurezza e l’ambiente?

Non crede sia opportuno un incontro anche con gli ambientalisti sulla SICUREZZA per ragionare insieme su come riportare la legge in Apuane e restituire diritti e dignità alle sue popolazioni?

Franca Leverotti, referente Presidio Apuane Gruppo di Intervento Giuridico onlus

franca.leverotti@gmail.com