Missione: Marmolada la nostra regina

Documento: Il canto della Marmolada

Questo racconto è dedicato alle nostre genti, alla parte “femminile e selvatica” che è in loro, che è contatto profondo e creativo con l’ abbondanza della natura e con il suo mistero.

Rosalya era un antico nome ladino della Marmolada.

Questo racconto è un umile atto d’amore per la Regina delle nostre montagne e per l’arcipelago delle Dolomiti: che l’uomo rispetti ciò che milioni di anni di evoluzione hanno creato.

Il giovane geologo aveva un bagaglio pieno di conoscenza. All’ alba s’incamminò per il sentiero: era forte, agile, veloce. Il suo passo sicuro lo faceva procedere rapido e nervoso.

A tutto sapeva dare un nome e un perché e come tutti gli uomini fanno misurava il mondo e sé stesso e la montagna con un criterio di quantità: le ore di cammino, il dislivello, la quota della neve, le specie animali incontrate.

Davanti a lui la Marmolada, Regina delle Dolomiti. Quel giorno avrebbe compiuto un’impresa solitaria: avrebbe scalato la parete difficile per una via nuova; ne pregustava i passaggi complessi, la tecnica.

Mentre camminava, quasi correva, con lo sguardo avvolgeva rapidamente ogni dettaglio, ogni particolare. Sulle sue labbra affioravano i nomi, delle rocce, dei grandi alpinisti prima di lui, le date delle importanti ascensioni; saliva respirando a pieni polmoni l’aria fresca del mattino e conquistava quota.

Il giovane geologo, con la sua scienza, con il suo alpinismo di quantità dominava la montagna, come gli uomini fanno e aspirava a dominare il suo mondo ma gli sfuggiva la intima bellezza delle cose, non ne coglieva nel profondo l’eterna promessa di abbondanza e di vita.

I monti pallidi per lui erano una sfida emozionante per il corpo e per la mente, erano strati di filladi, micascisti, arenarie, quarzi, molluschi e calcare; erano milioni di anni di mare che muta e corrode, di eruzioni vulcaniche, di fiumi e lagune calde, di pioggia di sali.

Erano un meraviglioso spettacolo naturale, da attraversare con la mente, da sperimentare con picozza e ramponi. Il sussurro veloce del volo di un rondone lo distolse dai suoi pensieri, sorrise e si fermò, abbassò lo sguardo, c’era una grande pietra che faceva ombra a un giaciglio di muschio; calò lo zaino e si sedette a riposare.

Era salito con buon ritmo, aveva tempo. Notò allora una piccola dorata lumaca che adagio adagio saliva sullo zaino.

Quel movimento lento lo attirava, rimase a guardare il buffo animale fino a che arrivò alla tasca sopra lo zaino e lì rimase. In quella tasca c’era la cartina della montagna, la estrasse e la aprì. Il vento ottusamente la piegava, con i suoi codici e i suoi colori, pensò, era solo una mimesi di quel luogo incredibile, poteva decifrarlo, non conoscerlo.

Ripiegò la cartina e socchiuse gli occhi abbagliato dal sole e cadde in un sonno profondo. In sogno gli apparve una fanciulla selvatica, dolce e vitale, con lunghi capelli di grano.

La sua pelle, i suoi capelli intrappolavano la luce del sole. Lui si alzò e la seguì.

Dal suo petto la fanciulla sorridendo senza parlare iniziò un canto che era per il giovane potente e pauroso.

Camminavano per pendii e prati, per rocce e ruscelli, luoghi non nuovi ma ora improvvisamente eloquenti perché tutto era toccato dal canto. Il suono melodioso e potente toccava le corolle dei fiori, gli steli d’erba, le gocce di rugiada appese tra i mughi, le pietre grigie e chiare, le guglie su in alto e perfino le nuvole.

Cose, animali, piante erano scossi e rispondevano al canto di un’ eco intensa e misteriosa. Il giovane geologo era turbato, ora questa natura evocava sé stessa.

Poi la fanciulla smise di cantare e si sedette in cima al sentiero, al limite della neve. Infilò i piedi nudi nel candido, gelido manto e allegramente cominciò a intrecciare i suoi bei capelli e ne lasciava volare qualcuno nel vento.

Quando i capelli cadevano nella neve misteriosamente in quel punto fiorivano gialli fiori di arnica. Il giovane geologo era incantato e non cercava una spiegazione, solo assorbiva quella energia vitale diffusa.

Rosalya sorrise e disse al giovane solo poche parole: “Io sono la voce della natura, ascoltala. Essa è generosa, luminosa abbondanza ma solo per chi ama ogni cosa, cammina lento, rispetta questa ricchezza e i suoi misteri.

Non chiedere il mio nome. Non desiderare di domarmi. Accetta il mistero. Ti lascio; ti faccio dono del potere eterno di luna e sole.” Si alzò e cantando risalì il ghiacciaio a piedi nudi, danzando lentamente; non aveva bisogno di nulla per farlo.

Là dove era stata seduta rimase un mazzo di stelle alpine: il suo raro e prezioso dono dall’abbondanza della natura, per lui. In quel punto del sogno il giovane si svegliò, il sole aveva girato oltre la linea del mezzodì; aveva dormito profondamente.

Stirò i muscoli indolenziti, incrociò le gambe e levò gli occhi al cielo; era profondamente scosso, cercò i fiori di arnica, le stelle alpine, le impronte di piedi leggiadri nella neve: non vi era nulla.

Non provava più alcun desiderio di superare un limite, di definire lo spazio e gli eventi. Riprese il cammino lentamente. La lumaca era sempre sopra il suo zaino.

Arrivò ai piedi della sua parete e incominciò a prepararsi per l’ascesa; non sarebbe stata un’impresa o una conquista; sarebbe stato un viaggio e così fu. Scalò la parete in un tempo dilatato ferendosi gli occhi per guardare il sole sopra di lui; incontrò sé stesso nella lentezza.

Poi ridiscese felice e stanco e si incamminò verso valle ormai sotto le stelle luminose della sera.

Era un uomo, il giovane geologo e le ferite sulle mani impresse dalla nuda roccia erano un patto di amore e rispetto per la montagna e il creato.