Montagne degli Dei o montagne di rifiuti?
Per una ecologia della sacralità naturale di Carlo Alberto Pinelli
L’impresa alla quale mi accingo in questa prima parte del mio intervento non è tra le più facili. Deve collegare le sponde di un baratro davvero molto profondo e il ponte che tenterò di gettare tra i pilastri ideologici su cui hanno fatto il nido le certezze delle nostre società avanzate, da un lato, e la sacralità della natura ( soprattutto montana, ma non solo ), così come era vissuta nel nostro passato pre-cristiano e come continua ad essere vissuta da svariate culture ormai “marginali”, dall’altro. Davvero molto profondo. Infatti all’interno della società alla quale apparteniamo sembra che gli esseri umani civilizzati possano scegliere solo tra una visione laica, utilitaristica e riduttiva della realtà, e una adesione ai dogmi di religioni trascendenti. In entrambi i casi alla sacralità immanente della natura – liquidata come una forma di arcaico panteismo, o peggio, di animismo – non viene concesso il diritto d’ingresso nella cittadella delle opinioni sensate. Io non perderò tempo per cercare di dimostrare quanto un simile atteggiamento sia schematico, parrocchiale, e psicologicamente inadeguato. Suggerirò soltanto che sarebbe opportuno riflettere sull’opportunità di aprire comunque nelle mura della cittadella in cui ci siamo arroccati, qualche piccolo varco – o qualche finestrella – per permettere al vento della natura non domata dall’uomo di insinuarsi al suo interno, per diffondervi i suoi metaforici profumi e le sue suggestioni poetiche.
In questa prospettiva una delle domande preliminari che dobbiamo porci riguarda proprio il significato di fondo del termine “sacralità”. Quando i nostri lontani, ma non proprio sprovveduti, antenati dicevano che una montagna, o un bosco, o una rupe, erano sacri, cosa intendevano realmente esprimere? Che tipo di emozioni e soprassalti cercavano di circoscrivere, o di valorizzare, o di esorcizzare con quella parola?
Mi è venuto in mente, mentre gettavo le basi di questo intervento un breve dialogo tra due viandanti, sorpresi dalla notte su un valico montano. Dialogo che fa parte del libro di Cesare Pavese “ I dialoghi con Leucò. La conclusione dice: “ Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi…fu perché ci trovavano qualcosa che noi non sappiamo. Non era il pane, né il piacere, né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno: non qui. E noi che viviamo lontano, lungo il mare o nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta.
– Dilla dunque, la cosa.
– Già lo sai: quei loro incontri.”
Prendendo lo spunto da queste parole, viene spontaneo domandarsi: ma noi che viviamo nel labirinto spesso indecifrabile delle grandi metropoli, l’ALTRA COSA di cui parlavano i viandanti di Cesare Pavese l’abbiamo davvero, definitivamente perduta?
Beh, si, l’abbiamo perduta per sempre, se intendiamo l’incontro con gli dèi: vale a dire con misteriose potenze sovrannaturali, esterne alla nostra psiche. Potenze che abiterebbero i recessi più segreti dell’ambiente naturale, e le sue estreme solitudini, ed avrebbero la capacità di agire attivamente sugli esseri umani, condizionandone gli stati mentali, i comportamenti, il destino. Però siamo proprio certi che la parola “dèi” non ci possa condurre verso approdi diversi? La prima parte di questo mio intervento esplorerà proprio una simile possibilità.
Una tipica caratteristica delle cosiddette “culture arcaiche” era quella di collocare all’esterno della psiche individuale la causa e la responsabilità di emozioni, inquietudini, stupori e turbamenti, in qualche modo “anomali”, spesso suscitati dall’impatto col mistero della natura. I nostri lontani antenati tendevano a immaginare se stessi come passivi ricettacoli; e attribuivano alle radici di quei loro inconsueti stati d’animo un nome distinto, una volontà autonoma, un potere coercitivo. In sintesi, una connotazione “sacra”. Suppongo che nel grande specchio della natura in realtà uomini e donne intravedessero già allora una diversa immagine di sé stessi; la quale però, per essere così insolita, sconosciuta, e generatrice di sgomento, veniva presa per l’effige di un dio, e venerata di conseguenza.
Tutto ciò doveva risultare particolarmente vero quando i nostri antenati erano spinti dagli eventi a confrontarsi con la montagna, la quale si imponeva alla loro esperienza come l’antitesi radicale del mondo quotidiano. Attribuire alle gole impenetrabili dei monti, ai loro appicchi vertiginosi, ai loro ghiacciai, alle loro valanghe, uno sguardo e una intenzione – anche se indecifrabili – significava già, in qualche modo, tessere le prime esili maglie di un rapporto; equivaleva a stabilire i presupposti dell’ingresso, nel recinto tranquillizzante degli spazi dominati dalla cultura umana, di un QUALCOSA che, in partenza, si presentava come incontrollabile al massimo grado. A quel punto sarebbe stato poi compito delle pratiche rituali e magiche, delle preghiere, delle offerte votive, ammansire tali forze selvagge, pilotandole verso esiti vantaggiosi per i singoli e le comunità. L’impresa, certo, rimaneva irta di rischi; però essa almeno contribuiva a scongiurare il devastante scoramento dovuto ad una sensazione di totale impotenza.
Gli uomini e le donne moderni in cui tutti noi occidentali ci riconosciamo, hanno respinto ai margini estremi dei loro orizzonti culturali un simile procedimento di appropriazione magica dei fenomeni naturali, relegandolo nel campo delle superstizioni. Possiamo dar loro torto? Non credo proprio. E tuttavia…Tuttavia nella nostra realtà esistenziale è rimasto un vuoto che solo raramente viene colmato. Per chiudersi alle spalle la porta, ormai inutilizzabile, della sacralità arcaica, troppi di noi hanno finito col perdere la chiave che apre un’altra porta: la porta che può condurci alle radici “sacre” del rapporto biologico tra la specie umana e il resto della natura.
Va riconosciuto che in realtà molti nostri simili, per un verso o per l’altro, quella porta sono riusciti a mantenerla comunque socchiusa, o almeno hanno sentito il bisogno di spingere lo sguardo al dil à, anche se soltanto attraverso il buco della serratura. Uno di costoro era Marcel Proust, il quale ha scritto: “Io non ero avido di conoscere che quello che credevo fosse più vero di me stesso; quello che aveva per me il pregio di mostrarmi un poco della forza e della grazia della natura, così come si manifesta lasciata a se stessa, senza intervento degli uomini. Meno essa portava la loro impronta e più spazio offriva all’espansione del mio cuore.”
Proust non era certamente un gran camminatore e tanto meno un alpinista! Però il senso di questo paragrafo può essere esteso con particolare pregnanza al rapporto tra l’uomo e la montagna. Perché proprio quel rapporto, più che altri, sembra favorire l’emergere alla superficie della coscienza di emozioni e stati d’animo curiosamente analoghi a quelli che un tempo venivano vissuti come la prova di una presenza o di una possessione sovrannaturali. Quasi che ciascuno di noi, esponendosi a cuore aperto e in totale libertà di spirito al contatto diretto con un ambiente naturale così sovrumano, misterioso e fuori misura, recuperasse miracolosamente una eco dei turbamenti che avevano provato i nostri lontani progenitori di fronte alla “ierofania folgorante” della montagna. Lo sappiamo bene: i deserti sono sempre stati territori privilegiati di esperienze iniziatiche. E le montagne sono veri deserti, anche se deserti verticali. Luoghi selvaggi in cui coloro che ne sentono il bisogno interiore possono ancora misurarsi con la solitudine, il silenzio, e soprattutto con l’autenticità di un rapporto spazio – temporale dal quale sono escluse, per scelta volontaria, tutte le protesi e i diaframmi protettivi che la società in cui viviamo ci offre, ci propone e impone, con effetti sterilizzanti. Per questo la montagna propizia fortissimi investimenti affettivi: è il crogiolo nel quale fatiche, disagi, pericoli si trasformano da sgradevoli scorie in metalli preziosi.
Facciamo un passo avanti. Il famoso naturalista John Muir sosteneva d’essere arrivato a formulare la teoria scientifica della formazione glaciale della Sierra Nevada sdraiandosi sulle grandi placche di granito, levigate dal passaggio di antichi ghiacciai, per imparare da esse a pensare come penserebbe un ghiacciaio. Espressa in questi termini, la frase appare insensata e potrebbe essere facilmente liquidata come il mediocre gioco di parole di un inguaribile romantico. Infatti, dal punto di vista della logica più elementare nessun nostro simile può credere seriamente di pensare come un ghiacciaio. O, se per questo, di pensare come un falco, o una marmotta, o uno stambecco. E’ bene lasciare ai cartoni animati un simile tipo di infantile antropomorfismo.
Dobbiamo riconoscerlo: ciascuno di noi è condannato al soggettivismo di specie. Esistono confini biologici che nessuno riuscirà mai a varcare. Ciò è pacifico. Quello che non è altrettanto pacifico è che le donne e gli uomini di oggi conoscano davvero – per averla esplorata a fondo – l’estensione reale di quei confini. La cultura dominante, dalla quale siamo stati nutriti, e l’organizzazione della società in cui viviamo, tendono a costringerci entro steccati assai più angusti; facendoci credere che al di là si stendano solo pericolose sabbie mobili, dalle quali l’io individuale potrebbe venir risucchiato e annullato. Non è così. Come ha scritto giustamente lo storico statunitense Eric Leed, i confini sono fatti da coloro che li attraversano. Vale a dire, da coloro che hanno il coraggio di attraversarli. A sua volta Georges Bateson affermava: “I problemi principali del mondo sono il risultato della differenza tra il modo con cui la natura opera e il modo con cui l’uomo pensa”. Se ciò è vero, ne consegue che la soluzione di tali problemi deve passare attraverso la conquista di un pensiero nuovo, che non si ponga come antagonista dell’opera della natura. E di questa si riconosca parte. Esplorare e abitare i veri confini biologici, al di là dei ben più angusti confini culturali che ci siamo costruiti a un palmo dal naso, ossessionati come siamo dal timore di perderci nell’indistinto, ci avvicina alla meta auspicata da Bateson, perché ci aiuta a liberarci da una concezione campanilistica e miope della cultura, vissuta in senso claustrofobicamente antropocentrico, per immergerci nel grande fiume della cultura “sapienziale”. Una cultura più sciolta, libera e aperta che il filosofo norvegese Arne Naess ha felicemente chiamato “ Ecosofia”.
Anche il filosofo francese Mikel Dufrenne lo ha detto molto bene: “Esiste una connivenza di fondo tra noi esseri umani e la natura. Questa intimità primordiale, genetica, può liberarci dalla pressione dei poteri esterni e delle strettoie della nostra formazione culturale, per permetterci di gustare alla sorgente il sapore del sensibile”. E non dimenticarlo mai più.
Ecco che in questa prospettiva, l’affermazione apparentemente avventata di John Muir diventa pienamente condivisibile. In realtà noi non dovremmo aver bisogno di sforzarci a immaginare come pensano i ghiacciai, i falchi e quant’altro ci circonda. Il pensiero umano, quando, come ci insegna ancora Bateson, accoglie in sé i linguaggi unificanti della poesia e della metafora, diventa AUTOMATICAMENTE il pensiero della natura, intesa nella sua globalità: ghiacciai e falchi compresi. La natura, attraverso i processi dell’evoluzione, si è costruita pezzo per pezzo un organo pensante. Quell’organo pensante è l’intera specie umana. Sarebbe sciocco illuderci di poter giungere a pensare come i falchi; dobbiamo però essere consapevoli che alla nostra specie è affidato il compito di pensare PER i falchi; e per le marmotte, i delfini, e via enumerando. Il dramma del Pianeta ha origine proprio dal tradimento che abbiamo compiuto, non volendo riconoscere quale fosse il significato della missione assegnataci. E non comprendendo che la nostra sviluppatissima corteccia cerebrale non si intendeva posta solo al servizio delle nostre pulsioni predatorie, dei nostri sogni ardimentosi e dei nostri egoistici disegni, ma anche di ogni altra manifestazione della natura, animata o inanimata che fosse.
E allora? Allora, ritornando al dialogo scritto da Cesare Pavese, l’ALTRA COSA potremmo anche non averla definitivamente perduta; e potremmo tutti riconquistarla attraverso un processo di purificazione e rinascita interiore. Thoreau ha scritto: “Quando voglio ri-crearmi ( cioè crearmi di nuovo), cerco il bosco più intricato, più fitto ed esteso. Vi entro come in un luogo sacro, un Sancta Sanctorum. Lì è la forza, il midollo della natura.”
Ora sappiamo che la cosa veramente sacra nell’incontro con gli dèi della natura non erano in realtà gli stessi dei; era l’emozione profonda, a volte sconvolgente ma sempre supremamente umana, alla quale gli dei accettavano di prestare il loro volto immobile e ben altrimenti enigmatico. Quella stessa emozione, quel senso di reverente, inesauribile meraviglia che proviamo di fronte al “midollo” della natura restano sacri anche oggi, seppure spogliati da ogni connotazione metafisica. Sono sacri perché ci rivelano poeticamente il significato della nostra presenza biologica su questa Terra. E aggiungo, continuano testardamente a ricordarci quali dovrebbero essere le nostre responsabilità nei confronti della Terra.
Carlo Alberto Pinelli