Nel bosco

Il bosco come una condizione esistenziale, la boscosità come la cifra della primitiva selvaticità dell’uomo. Una riflessione di Giovanni Widmann, professore di filosofia e storia al liceo Russell di Cles

Bosco delle Navette, Parco del Marguareis

Introduzione

Egli, civilizzandosi, ha prodotto cultura ma ha perso la propria natura, dimentico che la natura è nella sua significazione un’espressione storico-culturale non soltanto perché la sua rappresentazione varia in ragione delle prospettive, interpretazioni e sensibilità proprie delle diverse epoche -, ma fondamentalmente perché è una realtà che per sussistere e permanere nella sua essenza richiede un’istanza etica e la consapevolezza della sua inclusività, cioè una combinazione di ragione e sentimento, di conoscenza e sensibilità ecologica, elementi per definizione valoriali e dunque culturali. Ma in che senso l’essenza della natura è inclusiva? Non certo nel senso che essa ha una sua oggettività e alterità oppositiva che la separa e distingue dal soggetto umano esclusivo, o addirittura una sua estraneità. L’errore fatale della civiltà moderna occidentale è stato concepire la natura come limite da superare e datità ostativa da sottomettere e contrastare (moralmente, dialetticamente e praticamente, ossia tecnicamente) nel progresso verso l’incivilimento umano. Ma nel processo di de-naturalizzazione l’uomo moderno ha perso se stesso, ovvero la sua millenaria eredità evolutiva filogenetica, il suo patrimonio gen-etico, il suo essere-prossimo alla terra generativa. Nel non sentirsi più parte di una totalità organica ma contro-parte repulsiva e distruttiva, nel suo cieco impulso appropriante-espropriante l’uomo moderno ha determinato le condizioni della sua decadenza, il suo malessere esistenziale, la sua povertà spirituale. Infatti l’imperante materialismo e la rapacità dell’economia di profitto hanno spento l’originaria sintonica armonia con la natura, che non è la celebrazione romantica del bello e del sublime e men che meno un retorico ritorno al naturalismo rousseauiano. Sostenere la necessità di una ri-naturalizzazione dell’uomo significa riconoscere l’indissolubile legame tra uomo e natura e tra natura e cultura, dove quest’ultima nelle sue varie articolazioni – scienze umane, scienze della terra, scienze naturali – oggi sta lanciando forte il suo appello affinché sia radicalmente cambiata impostazione, pena l’irreversibilità dei processi distruttivi e degenerativi in atto. La natura forse potrà trovare nuovi equilibri, mentre è certo che l’uomo è destinato all’estinzione. Tuttavia non è soltanto una questione cognitiva: occorre una diversa sensibilità, recuperare il senso di un’antica affinità, della propria ancestrale selvaticità.
Invece nell’epoca della modernità tale perdita della natura (intesa geograficamente, ma soprattutto meta-fisicamente), che è dolorosa perché recide il legame con la propria sostanza ontologica – che non è quella di imporsi sulla natura, di superarla, di annullarla -, è compensata con la ricerca di esperienze e pratiche di ritorno alla natura spesso inautentiche, banalizzanti, omologanti che si traducono nella ricerca di svago, di benessere psico-fisico, di emozionanti eventi a contatto con la natura, ma secondo un approccio estetizzante e/o edonistico, che non presuppone la natura come avvento, come natività. Così un reale bisogno di fuga dalla dimensione anonima, alienante e spersonalizzante della vita cittadina spinge masse di turisti alla ricerca di ambienti pittoreschi, a praticare sport adrenalinici, talora a riscoprire perfino la spiritualità, declinata però secondo le modalità esoteriche e new age del sacro che caratterizzano l’epoca della secolarizzazione che tutto ha desacralizzato, non lasciando più spazio al mistero né allo stupore: la tecnica si incarica di investigare, calcolare, misurare; tutto dev’essere funzionale, deve funzionare. Naturalmente è la grande industria del turismo di massa che operando secondo la logica del profitto ha considerato gli ambienti naturali come merce da sfruttare e valorizzare al fine di offrire sempre nuove attrazioni, offerte, strutture ricreative, ecc. Ma una simile prospettiva è miope in quanto disconosce il valore e il portato autenticamente rivoluzionario di una vera riconversione antropologica alla naturalità, il che non significa necessariamente porsi contro ciò che è artificiale, contro il progresso, ma considerare che esso non può essere fondato sul dominio della natura, contro la natura, paradigma che attraverso il potere della tecnica ha segnato tutta la storia della modernità e che adesso sta rivelando la sua insostenibilità a fronte delle emergenze causate ad esempio, ma non solo, dal cambiamento climatico. Va quindi ripensato un intero modello di sviluppo economico, per cui la scienza e la tecnologia dovrebbero operare per contenere i danni e per salvaguardare quel che rimane di naturale. Tuttavia questo ancora non basta. È necessario operare una conversione ecologica che recuperi valori antichi ben conosciuti dalle civiltà contadine e montanare di un tempo, come il senso del limite, nella consapevolezza che la crescita non può essere continua, né a livello biologico né a livello economico, pena minare le condizioni di possibilità di vita – umana e non umana – sulla Terra. Bisogna comprendere che la relazione uomo-terra – nella sua più ampia accezione di biosfera, comprendente vita organica e inorganica – è, per usare un termine teologico, con-sustanziale. A questo riguardo è utile anche ricordare che il termine ecologia deriva dal greco ôikos: casa e logos: ragione. Ecologia è dunque la riflessione razionale intorno alla “casa” costituita dalla totalità relata delle forme di vita, dall’ambiente naturale in cui vivono e dagli effetti negativi prodotti dalle azioni ed interazioni disfunzionali dell’uomo. Ma se è vero che la natura è la nostra casa, è anche vero che non è solo nostra. In ogni caso la casa è ciò che più di tutto salvaguarda la vita, la protegge, la mantiene. Distruggere la casa comune – ben più che la propria casa – non è soltanto il peggiore dei mali; è il più stolto degli atti umani.

La solitudine del bosco

Nella solitudine del bosco l’uomo avvertito non si sente solo né tantomeno isolato. Piuttosto avverte l’insensatezza del mito moderno della moltitudine. La natura lo converte al senso più profondo del suo essere al mondo, che è per l’incontro. «La solitudine ha la potenza originaria di non isolarci, ma di gettare l’intero Esserci nella sconfinata prossimità dell’essenza di tutte le cose» . Nella più solitaria solitudine vissuta come scelta l’uomo solo attende che il mistero della foresta ombrosa gli venga incontro col suo silente annuncio. Perché soltanto nell’attimo in cui cessa lo stormir delle chiome al vento e cala il silenzio tra le fronde immote è possibile intendere il richiamo muto della remota scaturigine. La solitudine è dolorosa da sopportare perché impone di essere schivi ed esclusivi. Ognuno ha il suo bosco, alberga nel suo bosco. La boscosità ha il carattere della penetrabile complessità, che non è selva oscura né tenebrosa ma foltezza crepuscolare e ombrosa che svela e rivela arcani segreti. Solo nel bosco l’uomo impara ad ascoltare e ad ascoltarsi, ad intendere i versi misteriosi dei selvatici, versi salvifici perché parlano per sé. E tuttavia l’uomo che si mette in ascolto non si sente escluso. Parla da solo il Silvano, da solo a solo, ma è proprio questo soliloquio che rivela la profondità e l’estensione del richiamo, la finezza dello sguardo penetrante.
La foresta ombrosa non è un intrico insondabile ma la condizione della chiara visibilità: quei rari diradamenti tra la fitta macchia là dove filtra un fascio di luce sghembo sono illuminanti nella loro isolata singolarità e rarefatta concentrazione: coi loro chiaroscuri sono soglie d’accesso all’enigma della vita. Si viene alla luce sempre da un notturno, da una condizione originaria di invisibilità e cecità, come lo è la nascita, come lo è la verace intellezione o l’improvvisa intuizione (Insicht). E però venire alla luce non è semplicemente uscire allo scoperto ma piuttosto scoprire lembi e lande in controluce, scorci e squarci di cielo che appare e dispare tra i pinnacoli come durante le schiarite, sagome intraviste tra il fogliame. Lampi di luce tra vaste zone d’ombra: questa è la visione. Saper sfrondare. Il dettaglio emerge in contro la luce abbagliante, non risalta trasparente ma si scorge in trasparenza. Perché è nel contrasto di luce e non nella luce diretta che si vede veramente – attraverso lo schermo non offuscante dei tronchi ramosi. Il bosco non apre la vista sul paesaggio, non offre vedute ma è veduto; il bosco è parte del paesaggio, anzi è paesaggio. Il bosco non è passaggio ma assidua e non distratta frequentazione. Il bosco dischiude occultando coi suoi frondosi e nodosi velami.

La foresta del Cansiglio


L’uomo che si è emancipato dal bisogno non va nel bosco per ragioni pratiche, ovvero per trarne un sostentamento. Certo l’uomo moderno per diletto è ancora cacciatore, ma quello autenticamente selvatico è rimasto fondamentalmente raccoglitore, così va nel bosco, ma non per uscirvi presto: lo perlustra, cerca, ricerca qualcosa, vi sosta ristorandosi. Ma quel che cerca gli è di gioia e conforto, non gli è necessario: raccogliere – funghi, frutti di bosco – è in verità cogliere dettagli e accogliere la vita che chiede di essere celebrata come un rito; non la vita biologica e vegetale restituisce all’uomo che ha mantenuto la sua selvatichezza il legame ancestrale con la terra e con le radici, ma la vita nella sua essenza metafisica e nella sua significazione simbolica. La gioia contrae il tempo, la noia lo dilata. Così nell’atto di accarezzare i delicati aghi del possente larice o annusando il penetrante profumo del ciclamino egli si sente in armonia col Tutto, minuscola manifestazione di quella cosmica emanazione di energia vitale – che non è essere una parte ma sentirsi parte – e con ciò considera la propria finitezza e limitatezza, ma non insignificanza. Egli in quel momento pensa, ma in lui predomina l’incoscienza, non la stolta inconsapevolezza ma l’irriflessa aderenza e appartenenza a una realtà più grande che lo sovrasta come gli svettanti abeti e lo ingloba nella totalità dell’Essere. In quell’attimo di rapimento egli annulla il tempo nella pienezza dell’immedesimazione: si sa mortale, si sente affine alla natura, che non è eterna ma fedele nel suo incessante risorgere e declinare, nel suo fare sempre ritorno.
La solitudine nel bosco non è affatto la solitudine del bosco: essa ci apparta e ci appar-tiene; non è un luogo comune ma lo spazio intimo dell’ascolto nel tempo pensante dell’interrogazione che va oltre la certezza e la sicurezza dello stare all’aperto, davanti all’orizzonte che dischiude. Il bosco è più estraneo al boscaiolo che all’uomo-del-bosco, il quale non vi si estranea ma si ritrova trovando altro e non nient’altro che se stesso, atteggiamento enfatizzato dal moderno soggettivismo estetizzante, epigono dell’inveterato antropocentrismo che ha “visto” il bosco come un possedimento e in generale ha concepito la categoria della naturalità esclusivamente in termini di disponibilità e di appropriazione attraverso la manipolazione artificiale: un bene mal-inteso come una merce che è a disposizione per il consumo e che ha valore in quanto è utile e funzionale. Perciò la solitudine nel bosco, la sua inaccessibilità ed enigmaticità, non è straniante e desolante come quella metropolitana, che è solitudine in-comunicante della moltitudine, isolamento nell’affollamento – solitudine delle parole sfibrate e vuote che dicono il niente -, ma è soli-attitudine, vocazione a cogliere la solarità ombrosa e umbratile del folto, isolata-mente, isola-dentro: far sì che sia solamente l’ombra lunga a farsi avanti entro il digradante lucore del tardo giorno, attardandosi nel bosco, inoltrandosi, ancora un passo avanti tra le fustaie.

Val Giumellino. Foto: Sergio Ruzzenenti


Due caprioli sbucano dal ginepraio correndo e subito scompaiono sotto l’erto fianco; squittendo uno scoiattolo scala rapidamente il tronco d’un abete e sull’alto ramo sosta a perlustrare, mentre per un istante il picchio rosso interrompe il suo martellante picchiettio. L’orso schivo e solitario l’uomo del bosco non l’ha mai visto, eppure avrebbe voluto. Ma non si va in bosco mirando e bramando, bensì soltanto sorprendendosi e ammirando quel che c’è intorno, e sopra e sotto, il vario e brulicante sottobosco. Nella sfuggente lontananza si pre-sente ciò che nella vicinanza si trascura per consuetudine o si ignora per eccesso di stimolazione. Questo è il bosco, questo è il senso della sua selvatichezza, del suo essere-primordiale: poter fare esperienza dei primordi, poter esser parte dell’origine. Nel bosco non è in agguato la tanto vituperata belva feroce – il famigerato lupo – ma è in attesa d’essere scoperto il tenero virgulto di presso alla vecchia ceppaia ricoperta di muschio, all’abete dal poderoso tronco. Il bosco attende d’essere visto nel mentre lo si trascorre.
Succede l’imprevisto, nel bosco. Viatico dell’uomo selvatico (wilder-Mann) è questa sapienza dell’attesa o paziente permanere che non prevede attraversamento ma che nello smarrimento ritrova un senso riposto, come si ripone la stanchezza riposando accosto al ceppo. La boscosità come intrico, fittume e assenza di sentieri è la condizione esistenziale dell’uomo, mentre la sua disposizione spirituale è quella di saper individuare e interpretare tracce, impronte, passaggi precedenti. Tutto è segno che attende d’essere appreso e insegnato, cioè tramandato. Il fondamento del bosco è celato alla vista, come tutto ciò che è profondo e inafferrabile: sono le sue radici, il suo radicamento, la sua radicale permanenza. Per quest’uomo forestale vocato e votato al bosco la memoria ancestrale degli alberi, che per lui e come lui tendono al cielo – la rinascente vita la cui essenza è arborea e resinosa – sarà promessa di rinnovamento e fiduciosa attesa di un nuovo inizio dopo la stagione algida del rigore. Che l’aroma balsamico delle abetaie, oltre che inebriante, possa essere anche stimolante? Un motivo di riflessione e forse anche di speranza per l’uomo controverso della contemporaneità che ha perso la sua natura silvana e vaga smarrito tra altri boschi artificiali e intricati labirinti mentali, che tra alti grattacieli cementificati cerca un’altra via o semplicemente di andare via?

Giovanni Widmann