Oltre natura e cultura
Lo studioso francese Philippe Descola denuncia la bancarotta dell’ipotesi di un progresso continuo basato sulla crescita delle risorse materiali. «Non regge più la distinzione tra natura e cultura: i popoli amazzonici mostrano che un diverso rapporto con l’ambiente è possibile. Noi apparteniamo alla Terra, non è la Terra che appartiene a noi».
Intervista a di Philippe Descola.
A cura di Adriano Favole. Traduzione di Marina Astrologo
(pubblicato su ariannaeditrice.it il 14 giugno 2021)
Philippe Descola è appena rientrato a Parigi, dopo un lungo e forzato soggiorno in una località alpina del Sud-ovest francese. È fuggito dal virus, una pratica tristemente famigliare agli Achuar, una società amerindiana che l’antropologo francese, allievo di Claude Lévi-Strauss, studia dagli anni Settanta. Sono stati proprio i ripetuti soggiorni scientifici in Amazzonia a suggerirgli una direzione di ricerca che ha poi portato avanti per tutta la sua carriera accademica e che riguarda il modo in cui le società umane hanno pensato e agito l’ambiente in cui vivono. Di lì è cominciato un percorso che, mettendo in dialogo l’antropologia culturale con la filosofia e la storia del pensiero occidentale, lo hanno portato a mettere radicalmente in discussione l’opposizione tra natura e cultura che caratterizza il nostro pensiero.
Oggi Descola è uno dei punti di riferimento del «nuovo» ambientalismo, che «la Lettura» ha definito «Koinocene» sul numero del 21 febbraio scorso; l’utopia di un mondo in cui, caduta l’illusione dell’unicità umana, la Terra diventa un terreno comune, fatto di interdipendenza, tra gli esseri umani e non umani, viventi e non viventi, che la abitano.
La storia dell’umanità, o di alcune società umane, è caratterizzata da una volontà incessante di valicare le frontiere, di conoscere il nuovo, di esplorare e dominare il mondo. La crisi ambientale e il virus segnalano forse che è giunta l’ora di porre fine a questo slancio prometeico?
«Lei ha fatto bene a precisare “di certe società”, perché a questo proposito non c’è nulla di universale. Sono molte le società che hanno un orizzonte relativamente limitato. Le società espansioniste sono gli antichi imperi del bacino mediterraneo, del Vicino Oriente, sono anche gli imperi come quello Inca, per esempio, che nel giro di un secolo appena è giunto a occupare una notevole estensione. Ma la maggior parte delle società, prima della grande espansione coloniale nel Cinquecento, avevano un orizzonte abbastanza limitato, non avevano l’ambizione di percorrere il mondo e meno ancora di dominarlo. Una cosa che colpisce molto chi s’interessa della guerra cosiddetta primitiva, vale a dire dei conflitti fra società non moderne, è che tali guerre hanno molto raramente un obiettivo di conquista territoriale. Esse hanno invece l’obiettivo di catturare nemici, a volte di catturare trofei (donne, bestiame), ma ben di rado l’annessione di territori. In altre parole, questo desiderio di dominio è caratteristico di ciò che ha avuto inizio a partire dal XVI secolo e che è stato definito una combinazione fra desiderio di conoscenza e desiderio di possesso. Il colonialismo è proprio questo. I primi colonizzatori iberici delle Americhe, e anche di parte del Sud-est asiatico, hanno avuto obiettivi inestricabilmente legati fra loro: conquistare, dominare, acquisire ricchezze, esercitare il controllo sulla forzalavoro, ma al tempo stesso conoscere le genti che sottomettevano. In un certo senso l’antropologia è tributaria di questo movimento dell’Europa, che è consistito in modo indissociabile nel sottomettere e al tempo stesso conoscere».
Lei è uno dei massimi specialisti di Amazzonia, e in particolare degli Achuar. Che impatto diretto o indiretto ha il CoViD-19 sui popoli amerindiani dell’Amazzonia?
«Occorre ricordare che i popoli amerindiani, e non soltanto quelli dell’Amazzonia, hanno subito il primo grande shock epidemiologico del pianeta nel XVI secolo, quando i colonizzatori sono arrivati e hanno trasmesso loro malattie infettive contro le quali non erano immunizzati. In alcune regioni, in particolare dell’Amazzonia, nel giro di un secolo è scomparso il 90 per cento della popolazione: il 90 per cento, dico. Facile capire che cosa significhi al confronto con la mortalità, in fondo relativamente bassa, delle grandi pandemie recenti, la spagnola o il CoViD-19: significa una distruzione mostruosa, inimmaginabile. Ebbene, da allora quei popoli hanno adottato alcune tecniche per cercare di proteggersi. Avendo ben compreso il principio del contagio, non appena in una comunità amerindiana qualcuno si ammalava, tutta la comunità si disperdeva. Però non è bastato. Attualmente, poi, disperdersi è molto più difficile, e le conseguenze sono abbastanza catastrofiche: io sono ancora in contatto con agli Achuar, e mi è giunta notizia che varie persone che ho conosciuto sono morte di CoViD-19. Per giunta, in generale le popolazioni amazzoniche vivono lontano dai presidi sanitari, e di conseguenza hanno più difficoltà a ottenere le cure disponibili. Probabilmente sono meno esposti di quanto lo sarebbero in grandi concentrazioni urbane. Ma lo sono, come lo siamo tutti».
Che ricordo serba delle sue prime ricerche sul campo? E perché proprio gli Achuar l’hanno colpita al punto di dedicare una vita intera di ricerca e di riflessione a poche migliaia di persone?
«Sono stato attratto dall’Amazzonia per un motivo generale, cioè il carattere enigmatico di quelle società. Fin dalla scoperta e dalla conquista dei bassopiani del Sudamerica, in particolare del litorale, prima di quello che oggi è il Brasile e poi, sull’altro versante, quello occidentale, cioè il territorio che si estende ai piedi delle Ande, gli europei si sono trovati di fronte a società che avevano grosse difficoltà a capire, poiché non erano affatto organizzate come le società europee: non avevano monarchi, non avevano sovrani, non c’era religione visibile — niente templi, niente sacerdoti —, non avevano un sistema di mercato; per giunta i villaggi erano molto distanziati e a volte anche l’habitat era disperso. Quindi gli europei non capivano in che cosa consistesse la società in quelle comunità amerindiane dei bassopiani. Questo sconcerto è proseguito a lungo, in un certo senso fino ad oggi: gli amerindiani erano considerati (e questa è la versione rosea e dorata, l’atteggiamento, ad esempio, di Montaigne) o come bambini nudi, filosofi che ragionavano di problemi metafisici complessi e vivevano dei frutti che una natura generosa forniva loro; oppure al contrario come bruti cannibali che si ammazzavano fra loro. E in un certo senso erano vere entrambe le cose. Per quattro o cinque secoli gli europei hanno utilizzato nella loro filosofia politica quest’immagine delle società amazzoniche».
E lei che impressione ne ha tratto?
«Quello strano modo di essere, cioè di vivere in qualcosa che somiglia a uno stato di natura — inteso come nella filosofia politica europea — cioè in cui non ci sono capi, non esiste un sistema di coesione come possono esserlo il lignaggio, il clan o cose del genere, mi aveva colpito molto. Doveva esserci qualcosa che permetteva di capire la fluidità di quell’organizzazione sociale e quel rapporto particolare con la natura. Insomma, ero partito da quell’ipotesi, che era il prodromo di un’intuizione, ed è proprio quanto ho scoperto fra gli Achuar. Ma ci è voluto tempo. Quel mondo, in fin dei conti, mi ha stimolato, nel senso che lì, con una certa ingenuità, ho scoperto per la prima volta che quello di “natura” non è un concetto universale, che quella gente non viveva “vicino alla natura”, perché per loro la “natura” non esisteva: le piante, gli animali, gli spiriti, tutti gli esseri non umani formavano una sorta di società, anzi, delle società, con le quali intrattenevano un’interazione, una negoziazione, una competizione costante. E in fondo è questo che ha stimolato tutto il mio lavoro di ricerca successiva. Negli anni in cui con la mia compagna, Anne-Christine Taylor, abbiamo svolto la nostra indagine etnologica, abbiamo capito che, in realtà, gli Achuar intrattengono una sorta di dialogo costante con gli esseri non umani, cantando canti che sono forme di ingiunzione, abbastanza poetiche, rivolte al cuore o all’interiorità delle piante, degli animali, degli spiriti. Da quando abbiamo cominciato a capire questo, è stato difficile continuare a parlare, per esempio, di “natura” e di “cultura”, perché in fondo per gli Achuar le piante e gli animali per loro erano altrettanto “culturali” della loro cultura quotidiana».
A questo stesso proposito, si può dire che lei sia fra gli ispiratori di un nuovo ecologismo, che in larga misura rompe con l’idea che esisterebbe una «natura» concepita in un certo senso come qualcosa di separato dalla «cultura» e dall’essere umano. Come spiegherebbe in termini semplici questa nuova visione?
«Questa nuova visione è semplicemente un ritorno riflessivo e critico sull’esperienza della modernità, cioè l’esperienza di quello che ho chiamato “naturalismo”, che è un modo di vedere le cose che comincia a svilupparsi abbastanza presto — lo si vede nelle immagini a partire dal XV secolo — e che viene poi formalizzato in seno alle élite filosofiche e scientifiche a partire dal XVII secolo, secondo il quale gli esseri umani sarebbero animali come gli altri, ma se ne distinguerebbero per il fatto di avere un’interiorità, una coscienza, una soggettività che ne farebbero qualcosa di completamente a parte nel mondo degli esseri organici e inorganici. E questo è qualcosa di assolutamente eccezionale che è avvenuto in Europa nel corso di qualche secolo e poi, con il tempo, si è diffuso con l’espansione coloniale, con l’imperialismo e in seguito con il commercio delle idee e dei beni. Ma va sottolineato fino a che punto tale visione sia eccezionale. In altri termini, propongo di cercare di non vedere più quella che chiamiamo “natura” come un deposito di risorse esterne agli umani, bensì come un mondo, in fondo, o meglio come dei mondi, in cui gli esseri umani sono integrati nell’insieme degli esseri con cui interagiscono».
Si tratta di una svolta radicale?
«Non è certo una visione nuova: era così nel Medioevo, che era per così dire ecocentrico, o biocentrico, con teorie come quella della grande catena dell’essere. Ma la grande differenza rispetto al Medioevo — il Medioevo europeo — è che questa non separabilità di esseri umani e non umani non debba poggiare, come fu un tempo o com’è in altri sistemi, su una gerarchia fra gli esseri. Pertanto, dobbiamo trovare un modo di interagire con i non umani in cui, in fondo, gli uni non esercitano il loro dominio sugli altri a prescindere dal loro statuto ontologico, ma c’è da inventare una filosofia nuova e anche una nuova politica. È questo che rende tanto esaltante l’epoca attuale: perché, penso, abbiamo completato un ciclo iniziato con il Rinascimento e che adesso com’è evidente s’interrompe, in modo esemplare, con il riscaldamento del pianeta e con la rimessa in questione del ruolo degli esseri umani nell’equilibrio sulla faccia della Terra».
Se i virus di certo non riscattano l’umanità, la pandemia può aprirci gli occhi e farci uscire dalla nostra grande cecità, come dice Amitav Ghosh, di fronte alla devastazione inflitta al pianeta dal capitalismo liberale?
«Beh, si può sperare che sia così. In fondo, che cos’è un virus? È un essere che vive sulle risorse del suo ospite e lo distrugge gradualmente. E in un certo senso, è proprio ciò che fa il capitalismo liberale, che quindi è anch’esso un virus. La difficoltà è che una svolta non avverrà facilmente, non avverrà per negoziazione. Penso che il capitalismo, che in questo momento si dipinge di verde, cioè utilizza tutto il vocabolario tipico della sostenibilità, non abbia la minima intenzione di rinunciare alla propria espansione, e in particolare a quell’idea di crescita che è completamente folle perché, come sappiamo, tutti gli anni, e in un momento sempre più precoce dell’anno noi — noi umanità — esauriamo le risorse che la Terra può fornirci in dodici mesi. Io però vorrei lo stesso insistere su questo fatto molto importante: è vero, spesso si parla dell’Antropocene, cioè si dice che il genere umano è diventato una forza geologica che influisce sul clima e conduce gradualmente alla scomparsa di specie viventi, all’inquinamento e così via. Ma a farlo non è il genere umano in quanto tale: è un sistema. Perché alcuni rappresentanti di quell’umanità che conosco, in Amazzonia o altrove, con questo processo di distruzione non c’entrano proprio niente. Quindi è contro il sistema che occorre lottare, e non accusare l’uomo in generale».
Molti pensano che le concezioni e le pratiche dell’ambiente, o comunque le diversità culturali dei popoli indigeni, siano cose del passato, e quindi si possano vedere in modo nostalgico, ma siano, in fondo, inadatte al mondo contemporaneo. Perché e in che senso la diversità delle società umane si può, al contrario, adattare creativamente al nostro mondo?
«Le esperienze storiche non si traspongono. Di conseguenza è illusorio pensare che gli Achuar, gli Inuit o gli abitanti della Papua-Nuova Guinea possano offrirci insegnamenti per il presente. Ciò che possono offrirci, invece — ed è per questo che l’antropologia continua a essere una scienza preziosa e politicamente utile — sono delle alternative al modo di concepire il presente, insomma dei trampolini concettuali. Noi coltiviamo un’illusione — quando dico “noi” intendo dire gli euro-americani, molti dei quali vivono nell’abbondanza — pensando che il destino di fondo del genere umano sia quello di diventare sempre più opulento, sempre più ricco, sempre più felice, di vivere sempre più a lungo. È stata quest’idea, che in fondo è nata con la filosofia dell’Illuminismo, a intrecciare in modo inestricabile il desiderio di emancipazione con il desiderio di ricchezza, o comunque di benessere. Ma questo intreccio, fondamentalmente, si sta dissolvendo, si sta disfacendo. È evidente che gli ideali di quella filosofia illuminista, che hanno governato anche i grandi movimenti socialisti, e che i grandi pensatori socialisti del XIX secolo hanno portato avanti, non sono più sostenibili. Quindi, da questo punto di vista, tutto ciò che può permettere alla vitalità intellettuale di esercitarsi a immaginare futuri diversi da quello in cui siamo, è bene. E sotto questo profilo, lo ripeto, non si tratta di trasporre esperienze storiche che non sono trasponibili, bensì di utilizzarle per vedere come sono stati concettualizzati e come si continuano a concettualizzare — perché non stiamo parlando del passato: per molti popoli stiamo ancora parlando del presente — i rapporti con la Terra, i rapporti fra gli esseri umani, i rapporti di appropriazione, per esempio. L’idea di fondo è che è la Terra a possedere gli esseri umani e non gli umani a possedere la Terra».
Come ha vissuto il periodo di pandemia? Che riflessioni le ha ispirato questa lunga pausa forzata?
«Beh, io sono un privilegiato. Innanzitutto, sono in pensione, e quindi non ho bisogno di andare in ufficio tutti i giorni, né di fare lezione tutti i giorni. Sono all’università, ma sono in pensione, e quindi ho potuto trascorrere il periodo di confinamento in una casa di famiglia nel Sudovest della Francia, una bellissima regione. E qui ho accompagnato le stagioni. Perché è un piacere assolutamente straordinario veder cambiare i paesaggi giorno dopo giorno, veder fiorire nuove piante, veder arrivare nuove specie di uccelli, vedere il ciclo lunare… cose così, molto semplici. Dunque quest’esperienza l’ho vissuta piuttosto bene. Ma al tempo stesso sono consapevole che da molti è stata vissuta male, e qui in Francia è nelle regioni e nelle zone più densamente popolate, e soprattutto meno fiorenti sul piano economico, che il virus si è diffuso nel modo più drammatico».
Che cosa vuole dire questo?
«Significa che in fondo il virus ha acceso i riflettori su una cosa fondamentale, e cioè sulla persistenza delle disuguaglianze. Alcune già le conoscevamo: disuguaglianze sul piano dell’istruzione, disuguaglianze economiche. Ma ci sono anche disuguaglianze sul piano sanitario. Io non penso che il mondo del dopo-pandemia sarà molto diverso da quello di prima, perché non è certo un virus che farà cambiare il mondo. Semmai forse ci renderà più consapevoli, questo virus, della profondissima disuguaglianza che persiste in seno ai Paesi ricchi, e naturalmente ancora più fra i Paesi ricchi e quelli che lo sono molto meno. Lei poc’anzi ha menzionato la diversità. Io penso che la diversità debba essere un valore normativo, cioè non soggetto a discussione, nel senso che deve orientare tutti i nostri comportamenti. E non si tratta soltanto della diversità biologica, si tratta anche della diversità delle lingue, della diversità dei modi di fare, della diversità dei modi di pensare. Dunque un mondo sempre più diversificato è un valore verso cui dobbiamo tendere».