Piccola antropologia dell’orso

di Duccio Canestrini

Duccio Canestrini (Rovereto, 1º aprile 1956) è un antropologo, giornalista e scrittore italiano ed è membro del Comitato Etico Scientifico di Mountain Wilderness

Premessa

Mi diceva un amico: “Ma insomma tutto questo baccano sull’orsa, sai quanti altri problemi ci sono? E i milioni di animali che vengono sfruttati e macellati nel silenzio generale?”. Giustissimo. Ma l’orsa Gaia Jj4 è suo malgrado divenuta un simbolo. E i simboli sono importanti. Il dramma dell’orsa che ha aggredito un giovane escursionista in Trentino lo scorso 5 aprile è cronaca clamorosa, che costerna, ma che può servire a fare un ragionamento antropologico; a costo di suscitare la stizza di chi, quando sente la parola cultura, mette mano al fucile.

Tuttavia (mi) chiedo: quanto vale un ragionamento se la politica – in mancanza di trasparenza e anziché lavorare per la convivenza – asseconda una protesta popolare forcaiola? A ragionare si finisce nella categoria dei filosofi, ovvero della gente popolarmente inutile. E parte il solito disco sulle chiacchiere “da salotto” che “stanno a zero”, con il tormentone su quelli che invece vivono in montagna e la conoscono davvero. Invece si trovano persone che ragionano, o al contrario che sragionano, sia in città sia in montagna. Se nutro qualche dubbio è anche perché da qualche tempo va per la maggiore la polarizzazione delle posizioni: o sei contro o sei a favore, senza se e senza ma. Le etichette sono sempre pronte e la complessità, che richiede tempo e studio, va a farsi benedire. È accaduto con la vicenda dei vaccini, con le armi inviate per la guerra in Ucraina, ora accade con il tema degli orsi nei boschi del Trentino. Per inciso, rilevo che di solito la spuntano gli interventisti.

Che cos’è un bosco?

Credo sia la domanda fondamentale. Il bosco è una selva dove trascorrono la vita piante e animali selvatici. La frequentazione delle foreste da parte dell’uomo risale alla preistoria. Al giorno d’oggi tutte le foreste primarie sono state tagliate. Come habitat il bosco ha sempre avuto caratteristiche da fiaba che hanno alimentato l’immaginario: è un luogo oscuro, profumato, affascinante, misterioso, pericoloso. Nel corso dei secoli, a causa dell’aumento demografico e della pressione antropica, i grandi mammiferi selvatici chiamati “fiere” sono stati sterminati: cacciati, intrappolati, avvelenati. Tanto che a fine Ottocento in tutte le Alpi gli orsi erano ridotti a poche decine di individui (chiamiamoli così, anziché esemplari). E a tutt’oggi c’è chi li vorrebbe estinguere.
L’idea di bosco nel tempo è molto cambiata, anche per l’incremento del suo uso ludico-ricreativo, cioè del turismo. È stato un cambiamento rapido. Nel bosco si fanno passeggiate, sentieri, pic-nic, strade forestali, piste da sci e piste ciclabili, sport come l’orienteering, e così via. La caccia e il legnatico tuttavia sono ancora praticati. Al limitare dei boschi gli umani organizzano attività come l’apicoltura e l’allevamento di ovini e bovini, che naturalmente attirano lupi e orsi.
Il bosco ha progressivamente perso la sua sacralità, il suo incanto e con esso il nostro rispetto. Incute ancora un po’ di giusta paura, che tuttavia si traduce nel vecchio schema di affermazione coloniale: noi padroni, le altre specie subordinate. Essere aggrediti da un grosso animale, che nel bosco vive (non ci va per sport) non fa più parte del nostro orizzonte culturale. Vorremmo boschi gioco, boschi come parchi Natura, boschi nostri e senza rischi. È una questione cognitiva, un problema di rappresentazione mentale. La cultura del bosco e della montagna è cultura del limite. È cultura della presenza cauta, della sopravvivenza e della convivenza, senza arroganza. Sapere dove ci si trova. Ebbene capire tutto questo è antropologia, invocare la carabina è prepotenza e demagogia.

Boschi sfregiati dalle piste da sci

Folklore e giustizia

Antropologia dell’orso, sia chiaro, non significa umanizzarlo, ma comprenderlo nella millenaria relazione con Homo sapiens. In Europa non vivono scimmie in natura, l’orso è senza dubbio l’animale morfologicamente più simile all’uomo. In diverse culture dai Balcani ai Pirenei, l’orso è il nostro antenato selvaggio. Incarna la potenza della natura, l’archetipo della selva oscura, il mistero della nostra stessa animalità. Il folklore e le leggende delle Alpi testimoniano travestimenti, metamorfosi e magici transiti tra la nostra e la sua specie. L’orso ha caratteristiche che noi abbiamo perduto, è fortissimo e autosufficiente. Per stare in società noi abbiamo rinunciato a una parte della nostra individualità e della nostra libertà. Lui no, è libero e anarchico. L’uomo lo ha sempre cacciato come un vagabondo fuorilegge, con rabbia mista ad ammirazione, con malcelata invidia, un vero complesso di amore e odio. Questo conflitto caratterizza la competizione sul territorio, secondo una logica primitiva.

In natura la rappresaglia contro gli animali che uccidono non ha senso, ed è sempre odiosa.

Leggo che si vorrebbe “fare giustizia” sul caso dell’orsa omicida in Trentino, un giurista si è espresso addirittura in termini di recidiva. Ma questa giustizia legale è un’idea tutta umana, e neppure di tutti gli umani per fortuna. Non ha senso. L’orso fa l’orso (probabilmente l’orsa Gaia Jj4 ha voluto difendere i suoi cuccioli), l’etologia e la giurisprudenza sono dimensioni diverse, perlomeno da quando si è smesso di processare e “giustiziare” cinghiali, bruchi e gatti nel Medioevo. Noi umani, ormai plenipotenziari sulla Terra – manager del genoma, degli ecosistemi e della tecnica – abbiamo la responsabilità di gestire la compresenza in maniera evoluta. Di certo abbiamo anche la responsabilità di fare gli uomini come gli orsi fanno gli orsi, ma possibilmente non secondo schemi mentali da Paleolitico.

Cito un commento apparso sulla pagina “Convivere con orsi e lupi si può?” in Facebook: “Si accampano sempre diritti di fare i nostri comodi, ma mai nessun dovere: verso l’ambiente che ci ospita, verso i selvatici che lo abitano. Il diritto non è quello di eliminare i selvatici perché devo correre in montagna, o perché ci devo allevare le pecore. Perché allora io rivendico il mio diritto di avere una montagna con orsi e lupi. Non voglio una montagna totalmente antropizzata, non voglio vedere vacche a duemila metri, voglio vedere i selvatici, i boschi, i torrenti”. Punti di vista, diversi. È giusta una democrazia che appiattisce e deprime istanze minoritarie, quando si tratta di un bene comune, di una fauna che è di tutti e di nessuno?

Due o tre cose sull’accettazione sociale

La locuzione “accettazione sociale” sta prendendo piede negli ultimi tempi per problematizzare la popolarità degli orsi in Trentino. In sostanza, per escluderli. Vale la pena soffermarsi un momento sul significato di accettazione sociale: che cosa vuol dire? È a gradimento o a furor di popolo che si prendono le decisioni? Questa gestione in base a un presunto consenso collettivo andrebbe discussa, ma sarebbe una lama a doppio taglio. Perché allora bisognerebbe applicarla anche ad altri fenomeni, che so, la diffusione di pesticidi in agricoltura, le tasse, le delibere del TAR, gli stipendi dei politici, gli impianti di risalita, l’intelligenza artificiale, le difficoltà di parcheggio, il caro benzina, il commercio delle armi, e molte altre prassi che alla gente magari non vanno giù. Tutti fatti subiti, relativamente ai quali non c’è affatto accettazione sociale. Che cosa accettiamo invece? Accettiamo di finire sotto una macchina attraversando la strada, gli schianti dopo la discoteca, i morti per abuso di alcool e di tabacco, i decessi per stili di vita spericolati, gli infortuni letali dovuti a valanghe, incendi, alluvioni, incidenti di caccia. Ci sono attacchi mortali provocati persino da vipere e calabroni, da cani mordaci e da mucche che incornano, pochi ma ci sono.

La verità è che fatichiamo ad accettare l’eventualità di un’aggressione da parte di un animale selvatico per una questione culturale. Perché ci sentiamo a pieno titolo civili proprietari di tutto, come abbiamo visto anche del bosco. La nostra libertà individuale sembra valere più di quella degli altri individui animali. In definitiva diamo per scontato il maggior valore della vita umana. Il che è logico e comprensibile, per carità, non fosse che la logica ancora una volta è solo nostra, perché siamo noi stessi a stabilire la gerarchia, non un’intelligenza superiore, non un dio, un giudice cosmico, un ente terzo. In pratica è un’autocertificazione: valiamo di più come specie e come persone perché siamo più potenti, non vogliamo limiti, e abbiamo ragione perché lo diciamo noi.

Va da sé che questa mia piccola antropologia dell’orso (non mancano studi corposi sull’argomento!) implichi una critica radicale all’idea di centralità dell’essere umano. Un’idea sempre più diffusa tra chi si occupa di ecologia, ma che molte persone, appunto, non accettano. Né a Destra, né a Sinistra, né sopra né sotto. Allora forse bisognerebbe parlare di accettazione culturale, più che sociale. La strada è lunga e storicamente costellata di intolleranze. In un clima di vendetta tribale contro le malefatte ursine (mica le nostre, quelle mai), argomentare espone alle accuse di “bla bla”. Ma come non correre questo rischio?

Duccio Canestrini