Pinelli si racconta alla Società Escursionisti Milanesi

Un’intervista a Carlo Alberto Pinelli è pubblicata nel libro ”SEM 2020, la Società Escursionisti Milanesi si racconta” curato dal presidente Roberto Crespi con il contributo di diversi soci. E’ possibile richiedere la pubblicazione fresca di stampa, che non è in vendita, in Biblioteca o in Segreteria. Nelle pagine del volume, numerosi sono gli argomenti affrontati nell’illustrare la storia passata e recente della gloriosa associazione, sezione del Club Alpino Italiano, che conta a Milano un migliaio di iscritti. Una serie d’interviste è dedicata a soci particolarmente impegnati nell’organizzazione delle molteplici attività e ad amici con cui si sono condivise iniziative culturali e nel sociale. “Il CAI è la mia famiglia di origine”, spiega nell’intervista Pinelli, presidente onorario di Mountain Wilderness International che nella sede di via Cenisio viene abitualmente ospitata in occasione di riunioni del direttivo e assemblee dei soci e che nel 2016 è stata insignita dalla SEM con il prestigioso Premio Marcello Meroni. Per gentile concessione degli amici ”semini” la pubblichiamo nella sua integrità.

Carlo Alberto Pinelli

L’intervista


Parlaci di te, Betto: come è nato il tuo amore per la montagna?
Nel 1951 mia madre costrinse me e i miei fratelli ad accettare l’invito di mia nonna che aveva affittato una spaziosa casa estiva a Dolonne (Courmayeur). Io allora consideravo la montagna come uno stucchevole fondale retorico utilizzato da una certa parte dell’Azione Cattolica, dalla quale ero appena uscito, come metafora: ascesi verso l’alto, cordate da portare in paradiso, ecc. Ma appena giunto di fronte al Monte Bianco me ne innamorai immediatamente già dal primo giorno. Invece la mia propensione per l’arrampicata si sviluppò sui grandi massi del fondovalle dove mi accorsi di scalare meglio di molti altri miei coetanei. Su quei sassi, tra l’altro, ho conosciuto per la prima volta Walter Bonatti. Devo riconoscere che la mia storia alpinistica ebbe inizio come “sassista”. Un ruolo chiave per mio avvicinamento alla montagna intesa come esperienza “globale” e non solo sportiva, l’ebbe in seguito la guida Laurent Grivel, l’inventore dei ramponi a dodici punte. Fu lui il mio vero maestro, anche dal punto di vista del rispetto ambientale.

Laurent Grivel

C’è una montagna o una salita che hai particolarmente nel cuore?
Mi sono sempre considerato un alpinista del Monte Bianco dove ho compiuto quasi tutte le mie più importanti ascensioni. Il mio cuore è lassù. Per questo mi feriscono profondamente tutte le aggressioni all’integrità di quegli straordinari ambienti naturali (e all’esperienza che in essi si può vivere) come la recente, ributtante stazione di arrivo della funivia alla punta Helbronner, o ciò che sta accadendo lungo la via normale francese. Le salite che mi stanno particolarmente a cuore sono quelle che, per una ragione o per l’altra, non sono riuscito a fare, come la Cassin alle Grandes Jorasses, la cresta sud delle Noire di Peuterey, l’Arrète sans nom della Aiguille Verte, la via Mayor alla est del Bianco.

Monte Bianco, 1995 – foto Archivio MW Italia

Come vedi il futuro della montagna e della sua frequentazione?
I vecchi, credo fin dalla preistoria, hanno sempre considerato i tempi recenti non all’altezza dei tempi in cui loro erano giovani. Per questo, avendo ormai superato la boa degli ottant’anni, sono reticente ad esprimere un giudizio sull’alpinismo odierno e più in generale sull’attuale e futura frequentazione della montagna. Diffido del mio giudizio. Concordo però con Kurt Diemberger il quale sostiene la necessità di difendere lo spirito dell’alpinismo evitando di abbattere ulteriormente la barriera della fatica e del disagio. Nuove strade di penetrazione, vie ferrate, sentieri manipolati, rifugi accoglienti come alberghi di quota, certamente portano tanta gente in più tra i monti. Però man mano che queste folle viziate avanzano di un passo il significato della montagna arretra di un passo. Questo è verissimo in Himalaya; ma è altrettanto vero per le Alpi. Consiglio di leggere, su tale argomento, le Tesi di Biella, documento fondante di Mountain Wilderness.

1987, manifesto MW a Biella

Quali aspetti della montagna andrebbero meglio tutelati?
Le montagne, da un punto di vista morfologico, non sono altro che mucchi di rocce e di neve. Personalmente non ne riconosco una sorta di sacralità oggettiva. Considero invece sacro – vale a dire prezioso – l’investimento affettivo ed esistenziale su quegli spazi incontaminati e selvaggi che tante persone hanno fatto o possono fare. Direi in sintesi che bisogna difendere l’integrità della montagna intesa come potenziale catalizzatrice di una parte segreta di noi stessi. Un volto inaspettato che solo attraverso quell’incontro rischioso possiamo talvolta far uscire alla luce.

I nuovi media secondo te hanno giovato all’immagine della montagna e al modo di frequentarla?
No, non mi sembra. Manca in genere il coraggio di assumersi la responsabilità di indicare un percorso etico rigoroso. E di fare scelte di campo. Penso con raccapriccio al reality realizzato un paio d’anni fa dalla RAI sull’alpinismo del Monte Bianco. Poi ovviamente ci sono eccezioni come i blog di Serafin e di Gogna.
Quale personaggio rappresenta oggi meglio la montagna?
Non lo so. Francamene non lo so. Spesso però quelli che tu chiami “personaggi” pongono tra se stessi e l’esperienza della montagna il filtro sterilizzante del proprio super io e della propria ossessiva ambizione competitiva. E’ imbarazzante notare come molti di loro, pur compiendo grandiose imprese, del significato autentico dell’alpinismo capiscano ben poco.

Quale libro recentemente ti ha più appassionato/interessato?
“Viva il latino – storie e bellezza di una lingua inutile” di Nicola Gardini. O anche l’Aldo Leopold di “Pensare come una montagna” (ma con qualche riserva sulla pratica della caccia). In genere ormai leggo pochi libri di alpinismo. Spesso trovo le loro pagine autoreferenziali e al fondo insincere. Da giovane però li divoravo. L’”Amateur des Abimes” di Samivel è stato per anni il mio “livre de chevet”.


Quali effetti temi di più per i cambiamenti climatici in corso?
Soffro profondamente per l’arretramento dei ghiacciai come se fossero amici colpiti da un morbo incurabile. Forse inconsciamente li vedo come una metafora del mio stesso declino fisico. Il discorso sui cambiamenti climatici è troppo complesso per essere affrontato in questa sede.
Quali pensi che siano i motivi principali che rendono il CAI unico e insostituibile?
Unico e insostituibile sono, come ora si usa dire, parole grosse. Però al fondo concordo. Il CAI è la mia famiglia di origine. Sono socio della sezione di Roma dal 1954; ho guidato la TAM nazionale; ho diretto la scuola di alpinismo Paolo Consiglio; sono stato anche consigliere centrale. Faccio parte del CAAI. Penso che il Sodalizio sia una ricchezza per la nostra società, anche se lo vorrei più efficace, più tagliente e più coraggioso nel difendere le montagne dall’assalto dell’antropizzazione consumistica. Mi piace l’attuale presidente Torti ma alle sue spalle temo che ci siano ancora troppa zavorra e troppi compromessi. Un esempio? Il CAI non ha aperto bocca per ostacolare i deleteri e ridicoli progetti di sviluppo sciistico del Comelico, lasciando la responsabilità della battaglia a Mountain Wilderness e ad alcune altre associazioni ambientaliste (WWF, Italia Nostra, Pro Natura, Legambiente). Ne ho parlato con i dirigenti del CAI veneto ma con risultati insoddisfacenti. Con tutto l’affetto e il rispetto per la mia casa di origine reputo che ancora oggi i soci CAI davvero preoccupati della progressiva degradazione della montagna dovrebbero iscriversi anche a Mountain Wilderness e attivarsi a fianco di questa combattiva associazione che tanti anni fa ho contribuito a fondare.

Roberto Serafin