Spit e sputi

Spit e sputi di Enrico Camanni

Considerato che il dibattito su spit e ferrate è sempre attuale, pubblichiamo un contributo di Enrico Camanni del 2001

Enrico Camanni

In inglese la parola “spit” vuol dire “sputo”, anche se non è esattamente l’etimologia del piccolo tassello da parete che ha rivoluzionato la storia dell’alpinismo. Però la traduzione calza bene se si inquadra il problema nei suoi giusti termini, così come è stato fatto dal Parco delle Alpi Marittime e dall’Associazione delle Alpi del Sole (il raggruppamento delle sezioni cuneesi del CAI), l’11 novembre 2000, nel salone della Provincia di Cuneo.
Lo spit in quota non crea certamente un danno ambientale rilevante come una strada o una funivia, ma può inquinare, con l’arroganza del trapano, due fondamenti profondi della cultura e dell’ecologia della montagna. Il primo fondamento è costituito dalla storia stessa dell’alpinismo, là dove si snaturano i vecchi itinerari riattrezzandoli con il trapano o li si viola incrociandoli con nuove vie; il secondo fondamento, più importante dal punto di vista ambientale, è la salvaguardia di territori intatti, di isole di wilderness verticale, di rocce e pareti -per usare una bella definizione di Amy- su cui l’occhio degli alpinisti possa posarsi come il primo sguardo di Adamo. Un’attrezzatura permanente ci rende tutti orfani di questa prospettiva.


In tal senso lo spit piantato da mano superficiale o incivile è veramente uno sputo. Uno sputo contro la cultura della storia passata, ma soprattutto uno sputo contro la possibilità di creare una storia futura su pareti libere per alpinisti liberi. E’ evidente che si tratta di una precisa responsabilità che la nostra generazione si assume nei confronti di quelle che verranno.
Il Parco francese degli Ecrins, poi quello del Mercantour, e ora -il primo esempio in Italia- anche il Parco delle Alpi Marittime, si sono posti il problema di difendere gli spazi d’avventura, non demonizzando lo spit, ma arginandone l’invadenza nelle aree protette. A Cuneo i francesi hanno presentato i criteri e i risultati della loro regolamentazione scaturita dal dialogo tra le varie parti in causa (arrampicatori, guide, gestori di rifugi, rappresentanti delle associazioni alpinistiche), che serviranno da guida per il gruppo di lavoro formatosi sulle Marittime e, speriamo, per altri gruppi che dovrebbero lavorare nei parchi alpini, a iniziare dal decano di tutte le aree protette: il Gran Paradiso.
Accanto al problema dello spit si ripresenta con forza anche quello delle vie ferrate, che abbisogna di un’urgente riflessione culturale prima che, sull’onda di facili entusiasmi dettati dall’ignoranza, si compiano danni irreparabili.
Anche in questo caso serve una prospettiva storica. Le ferrate dolomitiche della Grande Guerra appartengono ai percorsi della prima generazione: come musei a cielo aperto, assolvono al nobile scopo della conservazione della memoria e abbinano il valore culturale all’interesse sportivo. In seguito sono stati creati altri itinerari di stampo squisitamente alpinistico, ma pregevoli per la logicità del percorso e l’impiego ridotto dei mezzi artificiali: ad esempio la via ferrata degli Alleghesi alla Punta Civetta, che permette di raggiungere una delle cime più importanti delle Dolomiti con poche scale e una grande cavalcata di cresta. Una tipica ferrata della seconda generazione. Ma poiché il gioco appassionava i turisti, e i turisti portavano denaro, si è giunti a concepire un’ulteriore evoluzione della ferrata (la terza generazione) che risponde a un solo requisito: la spettacolarità. Percorsi senza logica e senza meta, con deviazioni artificiose, salti strapiombanti, discese mozzafiato, ponti sospesi e quant’altro ancora, purché la gente venga, provi e si emozioni.

Via Ferrata Che Guevara

Questa mentalità è nata sulle Dolomiti ma si è diffusa soprattutto in Francia, dove negli ultimi anni ogni villaggio alpino alla moda ha realizzato il proprio itinerario sfruttando l’asperità rocciosa più vicina. I francesi vanno pazzi per la “ferratà” importata dai Monti Pallidi e i percorsi, superpubblicizzati, sono diventati attrattive turistiche al pari del campo da tennis, del centro ippico o della falesia di arrampicata.
Oggi sulle Alpi italiane le ferrate sono più di cinquecento. Un numero imponente, che pone seri problemi di manutenzione e gravi questioni di impatto sull’ambiente. Mountain Wilderness ha cominciato la stesura di un “libro nero” che censirà tutti gli itinerari attrezzati e ne evidenzierà le ricadute alpinistiche, antropiche e ambientali, oltre allo stato di sicurezza e di manutenzione. Non bisogna generalizzare, ma sicuramente ci sono molte ferrate che rappresentano un insulto per la montagna e anche per l’intelligenza di chi le ha pensate.
Ora si annuncia un nuova ondata, con “cantieri” in Piemonte e dintorni nati e cresciuti sull’esempio francese. Bisogna vigilare e farsi sentire, perché i cavi di metallo non diventino la distorta panacea del turismo leggero di inizio millennio.

Enrico Camanni