Un pellerossa americano

Riflessioni sul rapporto tra l’uomo civilizzato e l’ambiente naturale. Di Carlo Alberto Pinelli

Un pellerossa americano, che si chiamava Nuvola Blu, ci ha lasciato una poesia che dice:
“Vai intorno al monte, vai piano
perché il monte è fragile e silenzioso,
immaginati l’ampia valle
sull’altro lato del monte…
Traccia un cerchio di pensieri
intorno al delicato, silenzioso monte
e il monte si trasformerà in cristallo
e tu vedrai la valle aperta
attraverso il monte di cristallo
e l’intera verità del monte
e della valle sarà tua.
Vai intorno al monte, vai cauto,
ed entra piano
nella valle colma di pace,
là dove batte il cuore
del monte di cristallo.”

Parco Gran Paradiso, Piano del Nivolé. Foto: Toni Farina

 

Credo che poche cose, meglio di questi versi, possano rivelarci il “senso” dell’esperienza alpinistica e sci-alpinistica. Al loro immediato fascino affido dunque il compito di introdurre la mia relazione.
Il problema dei limiti della liceità dell’uso dell’elicottero per facilitare attività turistico-sportive (o presunte tali) in montagna, come l’eliski o l’eli-mountain bike estiva, per essere compreso nei suoi termini reali, senza rischi di fraintendimenti, va collocato in un contesto più generale; un contesto che attiene ad ogni rapporto tra l’uomo civilizzato e l’ambiente naturale.
Solo così sarà possibile affrontare il tema particolare, di cui ci vogliamo occupare oggi, in modo lucido e diretto, senza correre il rischio di restare intrappolati entro valutazioni dettate da una emotività epidermica, non sostenute da un solido quadro di riferimento culturale. E’ importante, mi pare, non lasciare libero il campo ai vociferanti partigiani di quella retorica demagogica che – per motivi non sempre molto nobili – va predicando a destra e a manca la necessità di portare “le montagne al livello di tutti”, e accusa chi osa pensarla diversamente di intolleranza fondamentalista, di elitarismo e di altre analoghe baggianate.
Io credo che la nostra riflessione odierna debba iniziare chiedendosi che cosa sono le Alpi, cosa rappresentano, cosa possono rappresentare e quale potrebbe essere il loro destino. Mi si dirà: tutti sanno cosa sono le Alpi! Io però non ne sono poi tanto sicuro. Ho il sospetto che la maggioranza dei nostri concittadini immagini le Alpi sulla falsariga di un cliché di maniera, che è stato loro proposto ed imposto dalla cosiddetta industria del tempo libero, per interessi che spesso, per usare un cortese eufemismo, non coincidono con il vero interesse della collettività. Si tratta di quell’industria del tempo libero la quale, per inciso, è riuscita a farci credere che il turismo di massa debba andare, per sua intrinseca e immutabile natura, sempre e comunque nella direzione della volgarità e della banalizzazione; quasi che il turista medio fosse una specie di re Mida al contrario, capace solo di trasformare in metallo vile tutto ciò che gli capita a tiro. Insomma, si finge di credere – perchè fa comodo – che la maggioranza dei nostri simili non sia in grado, per qualche misterioso danno genetico, di apprezzare qualcosa di meglio e di più significativo di quanto normalmente gli viene ammannito, qualora quel qualcosa gli sia proposto in forme culturalmente accessibili. Se questa convinzione fosse frutto di buona fede, si tratterebbe senza ombra di dubbio di un bel caso di razzismo! Ma, come sappiamo, in buona fede non è. Dietro c’è ben altro.
Sono queste alcune delle ragioni per colpa delle quali le Alpi vengono intese dal pubblico solo come un grande e pittoresco fondale, di fronte al quale si praticano attività ludiche che con la montagna hanno ben poco a che fare. Infatti è un po’ difficile accontentarsi di definire la montagna come un luogo in cui d’estate fa fresco e dove, d’inverno, si può scivolare su pendii coperti di neve. Però l’immagine condivisa – ahimè – è quella: una specie di salubre (ma periferico) parco dei divertimenti, che non richiede a chi lo frequenta nessuno sforzo di comprensione e adattamento, ma solo – diciamo così – l’esborso del prezzo del biglietto d’ingresso. Noi sappiamo invece che le Alpi meritano qualcosa di più. Anzi, molto di più. Siamo certi che possono rappresentare una scoperta importante se le si avvicina nel modo giusto. Le Alpi restano per tutti noi una grande occasione. Il guaio è che quella occasione la stiamo sprecando. E la colpa è un po’ di tutti.
Poste quasi al centro dell’Europa, a poca distanza da enormi metropoli e da vaste pianure densamente antropizzate, le Alpi rimangono ancora, in buona parte, una estesa e preziosa oasi di natura intatta, dove chi ne sente il bisogno ha modo di scoprire quanto possa essere fondamentale per la propria psiche, per il proprio equilibrio interiore, per la propria crescita spirituale, per l’espressione della propria intrinseca creatività, l’incontro non adulterato e non filtrato con gli elementi naturali; con i grandi spazi selvaggi, con i loro silenzi, con la solitudine. Tutti siamo convinti che questo bisogno di riscoprire in noi le parole per articolare un dialogo intenso e “connivente” con la natura “naturale”, è particolarmente sentito dall’uomo di oggi, proprio come antidoto alla complessità stressogena e all’artificiosità dilagante dell’esistenza quotidiana. E’ un bisogno reale e profondo, che tuttavia la maggioranza dei nostri simili non è in grado di decodificare e di indirizzare verso esiti efficaci. Mancano spesso gli strumenti culturali di base per liberarsi dai mille condizionamenti subìti; e per mettere in forse il presunto dovere di “sapersi accontentare” del minimo, purché quel minimo sia ottenuto senza sforzo e senza impegno; quasi che la pigrizia mentale (e fisica) potesse venir elevata al rango di un dogma cardine del corretto vivere civile. Di conseguenza, nella pratica, le soluzioni adottate finiscono col confluire in direzioni antitetiche ai presupposti di quel confuso ma reale bisogno e, anziché costituire una risposta valida, lo soffocano “in fasce”. L’ho già detto e voglio ripeterlo, anche se si tratta di una ovvietà: è la grande macchina dell’industria turistica tradizionale che sradica dal loro humus naturale le radici vitali di quel bisogno, le omologa forzatamente alle esigenze del mercato, le smista su binari tanto redditizi quanto privi di significato e in definitiva mistificatori.

Scialpinismo sui monti di Balme

 

Al visitatore comune, genericamente desideroso di conoscere la montagna e, tutto sommato, aperto a ricevere qualsiasi risposta, viene costantemente fatto credere che il pacchetto di emozioni estetiche epidermiche e di banali divertimenti offerto dai dépliants pubblicitari rappresenti per lui l’unica opzione possibile o, se vogliamo, l’unica perseguibile da persone con la testa sul collo. E’ triste constatare quanto sia facile convincere chi è stato sempre prigioniero dentro una comoda gabbietta, che la scelta a sua disposizione sia unicamente quella di decidere in quale altra gabbia trascorrere le ferie; come se fuori dalle sbarre fosse non solo pericoloso, ma anche disdicevole spingersi. Questa constatazione però non deve orientarci verso il pessimismo e la rassegnazione. Abbiamo il dovere morale di ripeterlo fino alla noia: l’uomo non è un astronauta atterrato per caso su un pianeta ostile; e non ha bisogno, per sopravvivere, di uno scafandro che costantemente lo protegga e lo isoli da un vero contatto con quanto lo circonda. Ciascuno di noi potrà essere totalmente se stesso se saprà integrare armonicamente la sfera del proprio mondo culturale e sociale con la periodica e liberatoria immersione in quel liquido amniotico che è la natura incontaminata.
Dico natura incontaminata e non paesaggio o tanto meno panorama; perchè qui non si tratta di guardare qualcosa di bello e di insolito dall’esterno, per pura curiosità, senza una partecipazione diretta, comodamente seduti in poltrona, come davanti a un gigantesco schermo televisivo. Immergersi nella natura significa entrare nello schermo. Significa scavalcare ogni guard-rail psicologico e fisico; significa liberarsi da molte di quelle protesi falsamente protettive di cui la società in cui operiamo ci circonda con effetti sterilizzanti.
In questo senso le montagne in generale e le Alpi in particolare potrebbero assumere un ruolo da protagonista; un ruolo che va molto al di là della pura e semplice dimensione ludica e igienica attualmente dominante. Le Alpi potrebbero proporsi consapevolmente come un luogo d’elezione in cui l’uomo della pianura può recarsi periodicamente non solo e non tanto per “ritemprare il fisico”, ma soprattutto per ritrovare una parte dimenticata o atrofizzata di se stesso, attraverso il contatto diretto con un ambiente naturale a volte anche duro e difficile, sempre non addomesticato e proprio per questo capace di provocare in noi una salutare reazione “majeutica”.
I temi ai quali ho accennato fin’ora sembrano escludere i montanari, la loro cultura e i loro legittimi interessi. Non è così. Non credo che le comunità delle nostre valli alpine subirebbero seri contraccolpi economici il giorno in cui scegliessero di elaborare una offerta turistica non più totalmente appiattita su una domanda che non vuole o non sa liberarsi autonomamente dal guscio delle convenzioni urbane e ossessivamente le ripropone in ogni contesto. Ho detto: non dovrebbero subire contraccolpi economici; ciò può essere vero, ma a un patto. Il patto è che il progetto deve venire largamente condiviso e non restare la proposta isolata, meritoria ma comunque velleitaria di questa o quella vallata, di questo o quel comune ‘illuminato’. E’ evidente: è necessaria una vasta convergenza per giungere ad elaborare un “progetto Alpi” coraggioso e globale, in grado di andare al dilà delle asfittiche convenienze localistiche, sia in senso sincronico che diacronico, cioè nello spazio e nel tempo. Penso ad un progetto articolato (la Convenzione delle Alpi potrebbe rappresentare un primo passo) in cui ci sia spazio per vari tipi e livelli di fruizione dell’ambiente e delle sue risorse, all’interno però di inequivocabili priorità. Quelle priorità dovrebbero certissimamente tener presenti i problemi di sviluppo economico delle comunità valligiane, ma non dovrebbero limitarsi solo a quelli. Ormai sappiamo tutti che una economia priva di una spina dorsale etica è destinata fatalmente a scivolare in una spirale di barbarie e a collassare infine su se stessa.
Il primo passo da compiere è quello di giungere ad una definizione (o identificazione) delle vocazioni primarie della montagna e, subito dopo, dei modelli di sviluppo compatibili con quelle vocazioni.
Sono perfettamente consapevole che nel concetto di “vocazione”, quando esso viene applicato ad un ambiente naturale fruibile dall’uomo, si insinuano ampi margini di soggettività e discrezionalità. L’uomo da sempre ha in qualche misura manipolato la vocazione primaria della natura in cui si sia mosso; di conseguenza quando qui parliamo di vocazione non possiamo non attribuire al termine un valore e un limite storici. Il che vuol dire modulabili nel tempo. Vocazione significa né più né meno quello che una vasta comunità – o la parte maggiormente consapevole di essa – in un determinato momento storico si attende da un ambiente naturale, nel rispetto dei suoi equilibri ecologici. Proprio la conquista di questo rispetto fa sì che il termine vocazione, pur mantenendo un valore non metastorico, non possa considerarsi arbitrario. Si tratta semmai di una nuova e più consapevole frontiera del rapporto uomo-natura che le avanguardie culturali non impongono, ovviamente, con la forza alla maggioranza, ma propongono alla sua attenzione, avvalendosi degli strumenti della ragione e della pacifica provocazione della testimonianza. Proprio quello che stiamo facendo qui, ora.
In teoria, a livello mondiale, tutti ormai si dicono convinti della necessità di imboccare al più presto la via di uno sviluppo sostenibile. Tuttavia, come è stato fatto autorevolmente notare da più parti, il termine usato si presta a interpretazioni ambigue e contraddittorie. Se intendiamo sviluppo come sinonimo di crescita in qualche modo quantitativa, cioè come costante, seppur rallentato, accumulo e spreco, questo sviluppo non può per sua natura essere considerato sostenibile nel lungo periodo. Serve solo a rallentare una inesorabile marcia verso il baratro finale. Infatti in un pianeta finito è impensabile una crescita infinita, a qualunque passo essa vada. Di conseguenza il termine va inteso e applicato come uno sviluppo non collegato a un progressivo aumento dei beni materiali, ma orientato verso un miglioramento della qualità globale della vita: un processo che fa leva soprattutto sul godimento di beni immateriali (maggiore tempo libero, maggiore informazione e cultura, migliori condizioni sanitarie e ambientali, ricorso a una società stazionaria e socievole, ecc.). Non c’è probabilmente bisogno di sottolineare quanto decisivo potrebbe rivelarsi il ruolo della montagna in questo grandioso processo di rimodellamento di quelle che gli esseri umani sono stati abituati fino ad oggi a considerare come aspirazioni irrinunciabili. Tuttavia io credo che tale ruolo potrebbe – o potrà – essere assolto solo se, nel mondo della montagna, il termine ‘sostenibile’ verrà ulteriormente precisato con l’aggiunta della parola ‘compatibile’. Cioè lo sviluppo non basta che sia sostenibile in termini di utilizzo energetico, ma deve essere anche compatibile con priorità che attengono, in misura diversa, alle sfere dell’etica, della psicologia, dell’ecologia, dell’estetica.
A questo punto mi sento già cadere tra capo e collo l’affermazione banale ma purtroppo molto diffusa, la quale dice: “Il progresso non si può fermare. Non è pensabile tornare alla candela!” Tornare alla candela? È fin troppo ovvio che l’assunzione consapevole di uno sviluppo realmente sostenibile ha proprio lo scopo di evitare un ritorno forzato alla candela; e di tornarci per colpa dello spreco sconsiderato delle altre fonti di energia non rinnovabili. Io vorrei aggiungere però che, metaforicamente, il vero problema non riguarda tanto il tipo di illuminazione che desideriamo avere; riguarda piuttosto cosa intendiamo farci, con quella luce. Sono convinto che tutti saremmo piu ricchi (nel senso autentico del termine e non in un senso puramente bancario) se imparassimo a leggere e a meditare i testi di Manzoni, di Leopardi, di Tolstoj, al lume di una candela, di quanto lo saremmo se ci limitassimo a leggiucchiare un fumetto di Dylan Dog o un catalogo del Postal Market aiutati da una potente lampada da 150 watt. Vorrei concludere la metafora dicendo che a volte una luce troppo forte può anche abbagliarci, impedendoci qualsiasi tipo di lettura.

Monte Leone, Passo del Sempione. Foto: Luigi Ranzani

 

Cosa attenta oggi alle vocazioni della montagna? O, se preferiamo, cosa limita la possibilità della montagna di proporsi credibilmente come un modello in larga misura alternativo e contro-corrente? Cosa le vieta di assumere un ruolo di protagonista per lo sviluppo di una cultura in grado di riconoscere il valore determinante di un corretto rapporto tra gli esseri umani e la natura, per la crescita armonica della personalità di ciascuno?
Certamente va indicata come una delle maggiori responsabili la colonizzazione spregiudicata delle vallate alpine compiuta in passato, e ancora di recente, dai grandi interessi economici concentrati in pianura. Una colonizzazione che la maggioranza dei valligiani ha accettato addirittura con gratitudine, contenta di poter raccogliere le briciole del lauto pasto altrui; solo di recente si è fatta strada tra le popolazioni locali quella che gli antropologi chiamano “la nostalgia per il prezzo che si è dovuto pagare”; che poi altro non è se non il dubbio sulla effettiva necessità di pagare un prezzo così alto (in termini di disgregazione del tessuto sociale, di svendita delle proprie tradizioni, di degradazione del territorio) per raggiungere le sospirate spiagge del benessere. Di fronte alle autorevoli e pressanti proposte provenienti dall’esterno, la montagna italiana ha accettato di giocare un ruolo marginale e passivo, premurosa di soddisfare qualsiasi richiesta; e del tutto incapace di formulare autonomamente un suo progetto globale, allo scopo di orientare e incanalare la domanda, invece di subirla. Ne è derivato, in molte valli, uno spropositato boom edilizio e un eccessivo affollamento di ospiti e visitatori stagionali, tutti concentrati in pochi mesi dell’anno. Una situazione che ha provocato enormi problemi di sistemazione logistica, di viabilità, di servizi pubblici aggiuntivi, di confusione, di inquinamento materiale e psicologico. Al punto che da più parti si è cominciato a pensare di ricorrere al numero chiuso o a qualcosa di simile, per salvare almeno alcune di quelle qualità di base che rendono la montagna appetibile al pubblico, anche quello meno esigente. Se non si corre ai ripari il futuro potrebbe riservare un generalizzato collasso delle presenze. Si sarebbe certo potuto evitare (e si può ancora evitare) questo tipo di sgradevoli provvedimenti estremi, ricorrendo su vasta scala ad una intelligente opera di rinaturalizzazione degli accessi. E’ utopistico pensare di poter tenere le folle lontane da ambienti che hanno limitate capacità di carico, quando in precedenza si è fatto di tutto per renderne agevole l’avvicinamento, sia materialmente, sia psicologicamente. Aggiungo “psicologicamente” perché il danno di cui stiamo parlando non è causato solo da strade di penetrazione, funivie, rifugi realmente esistenti sul territorio; ma anche da una diffusa pubblicità che suggerisce ai potenziali fruitori l’idea che per accedere alla montagna sia addirittura ovvio usare mezzi meccanici di un tipo o di un altro, invece di affidarsi al mezzo più democratico che esista: le proprie gambe. Questa mentalità tende a rafforzare un tipo di domanda altamente negativa per l’integrità dell’ambiente anche nei fondovalle. Qualunque sia il comportamento di ogni singolo visitatore, quando il numero dei presenti va oltre una certa soglia, il loro stesso “essere lì” assume un carattere obiettivamente destabilizzante. E allora? Allora – lo ripeto – bisogna avere il coraggio e la lungimiranza di rinaturalizzare gli accessi e di eliminare le indebite facilitazioni alla permanenza in quota; chiudendo molte strade carrozzabili, evitando di costruire nuovi impianti o di ampliare la portata di quelli esistenti, scoraggiando la trasformazione dei rifugi da spartani punti d’appoggio in alberghetti, e in generale evitando di dare spazio nel materiale di propaganda a simili manufatti. Strade di quota, impianti, rifugi possono essere una necessità, non un motivo di identificazione e d’orgoglio. Non basta. Dobbiamo avere il coraggio di suggerire alle autorità locali l’opportunità di ridurre al minimo la segnaletica dei sentieri e di mettere allo studio lo smantellamento di molte vie ferrate e di molti bivacchi fissi. Infine – ci siamo finalmente arrivati – dobbiamo chiedere che a livello nazionale si segua l’ottimo esempio delle provincie autonome di Trento e di Bolzano, le quali hanno saputo vietare del tutto l’uso dell’elicottero per voli e depositi turistici in montagna.
Dei danni ecologici e psicologici causati dalla pratica diffusa e sregolata dell’eliski parlerà dopo di me Sandro Gogna, mentre Adriana Giuliobello illustrerà le caratteristiche di un disegno di legge nazionale con cui si intende regolamentare l’intera materia.
Io qui, a conclusione del mio intervento, vorrei proporre alla riflessione dei presenti alcune considerazioni aggiuntive, che possono aiutarci in seguito a sviluppare il dibattito.
Sull’arco alpino ci sono oltre 12.000 impianti di risalita meccanici che servono migliaia di chilometri di piste battute. Dunque mi sembra che i diritti di coloro che desiderano salire in alto senza fatica siano più che abbondantemente tutelati. Esiste però una minoranza – del resto abbastanza numerosa – che invece intende e pratica lo sci come mezzo per entrare veramente nel cuore della montagna invernale e per la quale la salita con le pelli di foca ha la stessa importanza (o un’importanza maggiore) della discesa finale su neve vergine. Non molti sulle Alpi sono gli ambienti in cui è ancora possibile praticare in santa pace questa attività, godendo del silenzio, della solitudine, dell’atmosfera così speciale dei grandi spazi deserti. L’eliski viola anche questi ultimi rifugi e perpetra una obiettiva e ingiustificata violenza nei confronti di chi ha scelto quest’altro approccio alla montagna; un approccio discreto e rispettoso. Mi auguro che non ci sia qui qualcuno così ingenuo, così rozzo o così in malafede da obiettare a questo punto: “nessuno vieta a chi vuole salire a piedi di farlo; perché invece prendersela con quanti preferiscono raggiungere la vetta senza dispendio di energie, pagandosi un passaggio in elicottero? Guardiamoci in faccia: noi sappiamo tutti che il raggiungimento, con i propri mezzi fisici, di una cima possiede un fortissimo significato simbolico. Non si tratta solo di un esercizio atletico, che potrebbe essere compiuto, con la stessa utilità, anche in presenza di altri sciatori provenienti direttamente dall’alto. Lo scialpinismo, come l’alpinismo e l’escursionismo, è un’attività complessa che coinvolge, oltre ai muscoli e ai polmoni, molte zone e molte molle motivazionali della psiche. Per impedire a qualcuno di raggiungere una meta non è necessario vietargli materialmente di partire; basta rompere quella molla segreta che lo spingerebbe a farlo.

Ghiacciaio del Garstelet. Foto: Luigi Ranzani

 

Io non sto parlando qui, evidentemente, di una supposta sacralità oggettiva della montagna che la pratica dell’eliski offenderebbe come una sorta di bestemmia. Non credo a questo tipo di argomenti. Considero invece degne del massimo rispetto – e dunque in un certo senso immanente, “sacre” – le motivazioni di chi si avvicina alla montagna a cuore aperto e con un desiderio di totale coinvolgimento. Anche se si tratta di una minoranza, a quella minoranza riconosco diritti che la maggioranza ha il dovere di non calpestare.
Ma che ne è – mi si potrebbe obiettare – dei diritti dei facoltosi signori che utilizzano l’eliski? Per rispondere, faccio un esempio. Io posso benissimo essere totalmente ateo, ma non acconsentirei mai che una chiesa venisse trasformata in una discoteca, anche se a frequentare la chiesa fosse rimasto ormai solo uno sparuto gruppo di fedeli. Infatti, la tensione etica di quei fedeli e il significato che essi attribuiscono al luogo sacro non possono essere messi, per decenza elementare, sullo stesso piano del vacuo divertimento notturno dei frequentatori della discoteca, per quanto numerosi essi possano essere. Lo stesso vale per la montagna.
Certo, un grande santo o un grande asceta possono raggiungere l’illuminazione suprema anche meditando ai bordi di una chiassosa pista da ballo o all’interno di un supermercato. Però, guarda il caso, in tutte le religioni, romitori e monasteri sono sorti in luoghi silenziosi e appartati, immersi in una natura incontaminata.
Riconoscere i diritti di chi cerca, attraverso un’azione libera e gratuita, un contatto più coinvolgente e autentico con la natura, significa fare un passo in direzione della tolleranza e del rispetto. Ma vuol dire anche cominciare ad aprirsi alla comprensione delle più significative vocazioni della montagna.