Una nuova geometria della montagna.

C’è molto bisogno oggi di recuperare una diversa “geometria” della montagna, sapendola guardare da una prospettiva diversa, obliqua, inclinata: la montagna impartisce lezioni di vita, purché non siano ispirate alla sola aspirazione alla conquista della vetta – fisicamente e simbolicamente intesa – bensì offrano esperienze ed occasioni per riflettere sulla necessità di limitarsi opponendosi all’idea che non esistano limiti insuperabili.
Una riflessione di Giovanni Widmann, professore di filosofia e storia al liceo Russell di Cles.

Trifthorn. Foto: Sergio Ruzzenenti

La montagna è associata alla vetta e raggiungere la vetta è simbolo di realizzazione personale, di sfida e superamento dei propri limiti attraverso l’impegno, la tenacia, la forza di volontà, doti che sono richieste all’alpinista come a colui che nella vita ambisce a conseguire un certo risultato atteso. La montagna come metafora della vita, dunque, la cui frequentazione richiede disciplina e fatica; il sentiero che conduce alla vetta è erto e scabro, come lo sono i sentieri che quotidianamente affrontiamo nel corso della nostra esistenza. Conquistare la vetta, ma non a tutti i costi. La vetta è la cifra di un modo d’intendere la vita, assurge a paradigma del costante superamento e auto-superamento: l’asse della verticalità che si esprime come tensione dal basso verso l’alto rappresenta il valore della conquista, del dominio e del possesso e si traduce nella ricerca ambiziosa del successo personale (professionale, economico, ecc.), del prestigio, del potere, attraverso un’individualistica affermazione di sé.
Ma la montagna non può diventare esclusivamente lo spazio in cui superare i propri limiti o per cui entrare in competizione con altri, quanto piuttosto la condizione per misurare dei limiti imposti; implica anche la rinuncia, il saper tornare indietro quando è necessario. C’è molto bisogno oggi di recuperare una diversa “geometria” della montagna, sapendola guardare da una prospettiva diversa, obliqua, inclinata: la montagna impartisce lezioni di vita, purché non siano ispirate alla sola aspirazione alla conquista della vetta – fisicamente e simbolicamente intesa – bensì offrano esperienze ed occasioni per riflettere sulla necessità di limitarsi opponendosi all’idea che non esistano limiti insuperabili.

Capanna Boval, Bernina Biancograt. Foto: Sergio Ruzzenenti

L’idea della sfida e della conquista ha permeato profondamente l’immaginario collettivo e la cultura occidentale, fondata sul principio della libertà individuale e sul valore dell’intraprendenza e dell’iniziativa, elementi che hanno costituito le condizioni per l’affermazione dell’economia capitalistica a partire del XVI secolo e con l’avvento della rivoluzione industriale di un modello di sviluppo fondato sulla crescita continua, realizzato attraverso tecniche invasive di controllo e di sfruttamento della natura che hanno compromesso l’equilibrio ecologico e messo a repentaglio la stessa possibilità di sopravvivenza dell’uomo sul pianeta. Spesso inconsapevolmente quest’elogio apologetico della vetta e del superamento dei limiti – propri o imposti dall’ambiente circostante – traspare anche nella mentalità di alpinisti che per altri aspetti hanno maturato una sensibilità verso i temi ambientali, i quali trascurano o non sanno riconoscerne l’implicita dimensione aggressiva e regressiva piuttosto che progressiva, come si potrebbe pensare.
Oggi è giunto il tempo di invertire la rotta, di concepire la montagna e l’andare in montagna in modo diverso, secondo pratiche ecosostenibili e soprattutto secondo principi alternativi a quelli ancora dominanti, più lenti e rispettosi, meno impattanti, meno competitivi, nella consapevolezza della necessità di concepire il concetto di limite non come impedimento od ostacolo ma come opportunità di crescita personale e di presa di coscienza della propria connaturata vulnerabilità. Certamente la resistenza, la determinazione, la dura disciplina interiore, la forte motivazione sono attitudini e valori positivi che possono rivelarsi utili anche al di fuori del contesto alpinistico, al fine di conseguire le vette della vita e realizzare i propri desideri e aspirazioni, purché questo non diventi uno scopo assoluto ed incondizionato, all’insegna di un individualismo esasperato e di una concezione prettamente edonistica dell’andare in montagna come dell’esistenza, che riconosce come prioritaria la sola soddisfazione dei propri desideri e disconosce il valore della condivisione e della solidarietà alpina. Si pensi alla necessità di cambiare paradigma di sviluppo in relazione alla tutela dell’ambiente montano: da una cultura dell’incremento continuo di impattanti strutture turistiche secondo una logica lineare e progressiva ad una cultura della recessione, della limitazione, del ricircolo e della ri-crescita.

Foto: Sergio Ruzzenenti

Così in montagna: dal mito della verticalità a quello dell’inclinazione, dall’esaltazione della conquista della vetta (ormai non più inviolata, essendo state le vette già tutte violate) a quello dell’esplorazione dello spazio interiore inoltrandosi nello spazio esterno della montagna – sentendo in sé lo spirito della montagna, riconoscendosi parte di essa – passando dal tempo che si dispiega tra passato e futuro senza capacità di soffermarsi nella pienezza dell’attimo presente ad un tempo ricorsivo che sappia recuperare il ritmo naturale e la ciclicità delle stagioni, una sospensione del tempo che non esclude la coscienza della propria finitudine ma anzi proprio per questo acquista valore in quanto eterna istanti di autentica vitalità, la percezione di essere-parte-del-mondo. Ciò significa abbondonare il mito della verticalità senza per questo rinunciare alla rettitudine. La montagna è ambiente ideale per una possibile conversione alla temperanza – antica virtù quanto mai attuale -, come percorso non di sola salita che sa dare dignità alla discesa, metafora dell’abbandono e della spoliazione dei vecchi valori e luogo di ricerca ed esplorazione, praticata da chi sa cogliere la portata formativa della stupefatta visione panoramica anche senza arrivare in cima, anzi tornando quando serve sui propri passi. Solo allora la montagna può rappresentare un percorso di saggezza: conoscere qual è la vetta alla propria altezza, nella consapevolezza che più importante della meta è la modalità scelta per raggiungerla, il percorso più della destinazione. Diversi sono i sentieri che conducono in alto. Sceglierne uno e percorrerlo fino in fondo può garantire di arrivare ad una qualche vetta ma non alla meta, che si profila sempre distante e soltanto attraverso deviazioni e digressioni, raccordi e circonvoluzioni.

In discesa dal Pizzo Latta. Foto: Sergio Ruzzenenti

Invero è destino di ogni autentico “viandare” non avere mete né itinerari; nessun sentiero tracciato può infatti soddisfare l’animo inquieto del viandante, ma soltanto rassicurare coloro che amano camminare senza farsi sorprendere già sapendo dove esso li condurrà. Ma è dove vogliono andare? Viandare non è andare verso un dove ma un altrove. Così concepita la montagna è un itinerario di formazione che implica talora lo stare sul crinale senza tuttavia discriminare, sullo stretto valico al di sotto della cuspide sommitale, punto d’incontro e di svolta, rinunciando a rappresentare secondo categorie architettoniche la sua struttura e conformazione: torrioni e pilastri, castelletti, piramidi e pinnacoli, contrafforti e basamenti che tradiscono una vocazione all’assalto militare e presuppone l’espugnazione. L’ascesa alla montagna sia piuttosto un’ascesi, non in senso mistico-religioso ma come capacità di trascendersi, di essere eccentrici: preludio all’estroversione e all’attraversamento – penetrare, addentrarsi nella foresta, quale luogo di smarrimento e di fascinazione. La geografia della montagna è in grado di fecondare lo spirito attraverso i suoi tanti versanti imprevisti che originano attese e sorprese. Mai come adesso c’è bisogno di visionari che abbiano antivedere e sappiano prevedere.

Giovanni Widmann