Vallone di Sea. Le ragioni etiche di un no al progetto della strada.

Di Marco Blatto, Alpinista, scrittore, Presidente del Gism e coautore del “Manifesto Etico della Montagna”

Marco Blatto

E’ doverosa una premessa prima che anch’io dica la mia sulla questione della strada in progetto nel vallone di Sea, una vicenda che sta infiammando il mondo alpinistico, ma appassionando solo marginalmente i montanari. Chiamiamoli così, anche se oggi è necessario allontanarsi alquanto dagli stereotipi del passato, superando la dicotomia oppositiva cittadino-montanaro e sfatando soprattutto il mito del montanaro come difensore e custode consapevole del proprio territorio. Innanzi tutto, tra tutti quelli che finora si sono espressi, penso di essere l’unico che vive in questa valle (la Val Grande) con solide radici famigliari nel territorio e tra i pochi che di montagna ci vive. Non sono, di conseguenza, tacciabile di essere il forestiero domenicale, il villeggiante “estraneo” o il vacanziero. Categorie peraltro che da più di un secolo sono una fonte di reddito importante per molti montanari. Inoltre, credo di poter affermare di essere probabilmente l’unico che frequenta il vallone di Sea tutto l’anno, anche quando gli scalatori più assidui rivolgono le loro attenzioni altrove. Lo faccio arrampicando in solitaria sulla roccia e sul ghiaccio, oppure semplicemente camminando. Dopo tanti anni spesi a esplorare le pareti, specialmente quelle più “alte”, il venirci da solo, quando i riflettori sono spenti, suggella in qualche modo quel percorso di studio del paesaggio che a un certo punto si è accompagnato alla mia scalata, l’ha surclassata ed è diventato il vero motivo che mi spinge ancora oggi a salire in Sea due o tre volte la settimana. Forse è questa l’eredità che Gian Piero Motti ha lasciato nel mio intimo più profondo. Il mio genius loci risiede sicuramente lì. Si cita in questi giorni da più parti l’unicità del vallone, nel comprensibile tentativo di farne un baluardo contro la pretesa di segnarne ancora una volta il volto. Personalmente ritengo che il vallone di Sea non sia unico per le sue vie d’arrampicata, come molti affermano. Ci sono luoghi con itinerari sicuramente più belli, praticabili per tutto l’anno, che si sporcano molto di meno e restano asciutti più a lungo. Luoghi con una storia verticale ben più importante.

Le pareti del Massiet

Neppure si può invocare la Wilderness nel significato più biologico del termine, ossia di spazio incontaminato, perché la mano dell’uomo nel corso dei secoli ha pesantemente inciso sulla biodiversità del vallone. In primis tra il XIV e il XVIII secolo, con il disboscamento sistematico delle foreste che ne ricoprivano il tratto mediano, bruciando quintali legna nelle gigantesche carbonaie ivi realizzate e consegnando per sempre il vallone alla vegetazione rupestre.  Lo stesso santuario mariano, edificato all’imbocco di Sea nel XVII secolo, se da un lato preserva il bosco attraverso la sacralizzazione dello spazio, dall’altro è l’esempio dell’inesorabile mano dell’uomo sull’estetica del paesaggio naturale. Furono poi i montanari, per esempio, a modificare e allargare a suon di mine il passaggio della Coupe, lo stretto intaglio che s’incontra all’inizio del pianoro del Massiet, egregiamente riprodotto nella sua integrità d’inizio Ottocento da un disegno del Conte Luigi Francesetti in: Lettres sur les Vallées de Lanzo (1820-1822).

Oggi la Coupe, dove ancora appaiono i segni degli “assaggi di mina”, è diventato il Masso del Castelletto, apprezzato dagli amanti del bouldering, a testimonianza di quanto il paesaggio sia anche il frutto di una sovrapposizione di culture, talvolta il prodotto di una cancel culture. Sono decine gli esempi d’intervento umano sul paesaggio del vallone di Sea che si potrebbero citare. Dalla costruzione del passaggio del Passet negli anni ’50 del Novecento, con uso di mina e perforatore, per giungere alla realizzazione del serbatoio di testa dell’Acquedotto delle Valli di Lanzo con relativa strada di servizio, prima distrutta dall’alluvione del 1993, poi rifatta più a monte. E’ la medesima strada entrata progressivamente a far parte del paesaggio oggettivo di Sea e utilizzata da tutti, scalatori ed escursionisti compresi. Il paesaggio è poi in continua evoluzione per cause naturali, anche se in questi ultimi cinquant’anni, con i rilevanti cambiamenti climatici, è innegabile che quest’evoluzione sia altresì l’effetto di un’antropizzazione indiretta. Se percorriamo l’alto vallone oltre il Gias della Piatou, diretti verso il Col di Sea, transitando in macereti e campi di detrito sarà molto difficile riconoscersi nelle descrizioni fatte da Maria Savi Lopez nella sua opera: Le Valli di Lanzo, bozzetti e leggende (1886): «…odesi un suono cupo…è un crepaccio nuovo apertosi nel ghiacciaio, come a provare il moto continuo della massa immensa; che pure solcata dall’acqua in mille guise, rotta, spezzata continuamente per ricongiungersi di nuovo, saldarsi ancora ove s’apriva il crepaccio, scende nel moto secolare verso il vallone…e ad ogni passo ha nuove insidie per l’uomo. Ma quella nebbia che scende, quei suoni cupi che ricordano i pericoli della montagna, più terribili fra l’oscurità della notte, mi fanno ricordare che la via è lunga dai ghiacciai di Sea a Forno-Alpi-Graie, e comincio a discendere il vallone…». Difficile, sarebbe oggi rivivere le visioni romantiche del Francesetti e del suo Cheminée orrible compiuto tra gli angusti fianchi di Sea, in un connubio tra orrido e sublime. Infine, delle spesso citate “visoni” di Gian Carlo Grassi, restano forse oggi soltanto le “Spade di luce”, giochi solari tardo pomeridiani appannaggio degli animi più sensibili e garantiti dall’apparente immobilità millenaria delle creste rocciose.

Le spade di luce

Le stesse vie disegnate dalla fantasia del fuoriclasse condovese, infatti, sono state modificate e reinterpretate dalla visione del nostro tempo, seguendo delle dichiarate esigenze di restituzione, mosse certamente più dalla voglia d’arrampicare che da una reale attenzione al sensus animi di chi le ha originariamente create. La polisemia insita nel concetto di paesaggio è tale per cui possiamo oggi riconoscere una dimensione oggettiva, frutto di fatti e di fenomeni presenti nello spazio geografico e una soggettiva, frutto di una percezione personale. Forse, la definizione di paesaggio che meglio comprende queste declinazioni, anche se non la più esaustiva, è quella riportata il 20 ottobre 2000 nella Convenzione europea del paesaggio: “Landscape means an area, as perceived by people, whose character is the result of the action and interaction of natural and/or human factors”. Nel paesaggio del vallone di Sea convivono processi naturali, azioni umane più o meno invasive e più o meno “storicizzate”, quindi: strade, sentieri, edifici e manufatti. Se dobbiamo ricercare davvero una sorta di unicità – quella che spesso sfugge ai più – dobbiamo individuarla nel vallone di Sea concepito come luogo dell’evocazione, in una dimensione che va oltre il tempo e lo spazio. Ben oltre il tradizionale paradigma romantico ottocentesco. All’origine ci sono le “strane rocce”, come le ha definite Roger Caillois in La scrittura delle pietre, con il loro potere evocativo che agisce sulla psiche umana stimolandola a entrare in un rapporto particolare con i luoghi.
Vi è poi la mente visionaria di Gian Piero Motti, alpinista e pensatore creativo, capace di andare ben oltre il dato sensibile. Bisogna tornare al periodo dell’invenzione delle Antiche Sere, poco più di un triennio che va dal 1979 alla primavera del 1983. Un periodo che ha più a che fare con la contemplazione che con l’arrampicata sulle pareti del vallone, con la produzione immaginifica e le solide radici letterarie piuttosto che con il background alpinistico di Motti. Di mezzo ci sono le sue letture, difficili e non certo per tutti. In particolare vi sono la Filosofia delle forme simboliche di Cassirer e i Discepoli di Sais di Novalis, quest’ultimo uno dei più importanti capolavori teoretici del Novecento. E’ soprattutto a quest’opera che Gian Piero fa riferimento, ancor più, forse, che al romanzo Le Antiche Sere di Mailer.

Gian Piero Motti

Su di una voluntas allegorica ecco quindi farsi largo l’utilizzo della mitologia egizia per battezzare le grandi pareti del Massiet, che diventano così lo “Specchio di Iside” e il “Trono di Osiride”. Potrebbe sembrare un capriccio visionario ma non lo è, non per Gian Piero Motti. Per la sua profonda e consistente cultura gli è fin troppo chiaro che il mito, con tutte le sue caratterizzazioni magico-simboliche, è la chiave del dialogo alla funzione paesaggistica d’interpretazione della natura.  Il mito si lega all’essenza etica dello spazio, identifica ed esprime i tratti distintivi dell’umano vivere, soprattutto del vivere i luoghi, come già sosteneva Friedrich Schelling. Nel suo ultimo articolo: Alla ricerca delle Antiche Sere, pubblicato su Momenti di Alpinismo 1983, numero speciale della Rivista della Montagna, Motti scriverà: «Ed è per questo che mi sono preso l’arbitrio di usare tanto mito nel battezzare le pareti. Lo si voglia o no è nel mito che possiamo trovare il senso del nostro esistere e la risposta ai grandi perché della vita». Qualcuno considera questo scritto il testamento spirituale dell’alpinista torinese, tuttavia, è certo che egli scelse il vallone di Sea non a caso come locus evocationis, un sito privilegiato dove, come insegna la storia stessa della civiltà, la natura desidera comunicarci qualcosa stimolando la produzione immaginifica e generando “paesaggio”. Possiamo azzardare che le Antiche Sere siano state una delle ultimissime manifestazioni di pensiero dell’epoca contemporanea legate al mondo della montagna, in cui si possano ravvisare alcuni elementi tipici del «romanticismo»: soggettivismo, visioni, sentimento, sublime, caratterizzazione magica o mitico-simbolica dello spazio. Le Antiche Sere identificano l’ethos, luogo che ci appartiene e cui apparteniamo. Sono al contempo l’ethikos del vallone di Sea, esprimendone questa volta sì, l’unicità.

Il tratto mediano del Vallone di Sea

Ora non resta che domandarsi se un nuovo intervento dell’uomo in questo luogo, con la costruzione di una strada peraltro non supportata da valide ragioni socio-economiche, se non quelle di pochissimi, abbia ragion d’essere. Se, alla luce di una sensibilità nuova e collettiva del paesaggio soggettivo e oggettivo, in un’epoca in cui la sacralità della montagna dovrebbe per forza di cose ripartire dal senso del limite e della rinuncia, si deva intervenire così pesantemente in un luogo come questo sfregiandone l’ethikos. Io credo di no. Nelle visioni di Gian Piero Motti e attraverso il messaggio di Novalis, la natura invita l’uomo ad ascoltarla sempre di più e a ricordarsi di essere lui stesso “natura vivente”. Comprendere i messaggi naturali significa declinare una vera e propria filosofia della terra, che dovrà essere paradigmatica se vorremo coniugare utilità e bellezza in modo armonioso. Per questo occorre ripartire dall’unicità di Sea, quella di un paesaggio frutto di sovrapposizioni culturali, d’intuizioni e di rivelazioni, dove il senso del limite può fare la differenza e costituire la vera ricchezza non di pochi, ma del mondo intero.     

Marco Blatto