Valnerina, terremoto e grandi opere: una Terra da proteggere
La Valnerina convive da secoli con il rischio del terremoto. Per questo è inaccettabile che da lì passi il gasdotto Brindisi-Minerbio che metterebbe pesantemente a rischio quella terra. E per questo è fondamentale che gli sfollati dell’ultimo sisma tornino nei loro luoghi. Di Maria Cristina Garofalo.
Nelle montagne e nelle valli d’Appennino si respira ancora l’odore antico delle stagioni della vita dell’uomo integrato nella natura, solidale con essa, a suo agio in ambienti selvatici, severi, duri da viverci; di una bellezza struggente, piena, silenziosa, aerea. Nelle montagne e nelle valli d’Appennino ascoltavamo incantati il silenzio del vento. La bellezza assoluta, rarefatta, sospesa dei piccoli borghi poggiati sui crinali boscosi, le cittadine incastonate a valle, erano la cifra del nostro bene comune più prezioso e identitario: il territorio, la sua complessità, i suoi equilibri.
Ma le nostre montagne e le nostre pianure così belle, rassicuranti, solide non sono altro che l’effetto di scontri e distensioni fra placche tettoniche. Lo vediamo bene in Valnerina dove le rocce stratificate, in alcuni punti si fanno verticali e ondulate, increspate come l’acqua di mare. Lo vediamo bene nei nostri meravigliosi altopiani nati dalla distensione dopo il tremendo, ciclopico urto. E’ successo tante volte; è successo sempre fin dalla nascita di questa meravigliosa terra custodita al centro del Paese e affidata al sistema di faglie più complesso e diffuso della penisola. Ne siamo la spina dorsale, il luogo più magico e misterioso, ma siamo in costante attesa del “quando” la nostra terra reclamerà, annunciandolo con un gran ruggito, e un forte tremore, nuovi equilibri cui noi dovremo solo saperci, di nuovo e di nuovo adattare. Quando accade – come poco fa; quando i tempi geologici diventano veloci e accelerati come la vita dell’uomo, sembra che all’improvviso il patto con la terra – forzato ed estremo – si frantumi come la sua crosta, si alteri come le sue montagne squarciate, si sbilanci come gli alberi trascinati a valle dal boato. All’improvviso ci viene ricordato che siamo ospiti, molto piccoli e insignificanti, di fronte ad eventi che, pure, hanno creato la bellezza che abbiamo sempre conosciuto. Eros e Thanatos si fronteggiano, anzi no, si mescolano, come sempre, come in ogni aspetto della quotidianità. Siamo poggiati sul dorso della terra, come qualsiasi altro essere, per una condizione così eccezionale e irripetibile, e in equilibrio così cagionevole che appare pura follia, e insulto all’intelligenza, credere che laddove le nostre solide montagne sono arrivate a terra, si sono spaccate, possano reggere Grandi Opere che qualcuno sta tentando di costruire proprio qui, come il gasdotto Brindisi-Minerbio progettato dalla Snam.
Eppure questo ci vogliono far credere, perché così va in Italia. Non solo le catastrofi sono “annunciate”, ma ci si aggiunge un carico non da poco progettando interventi che attraversano la penisola, sovrapponendosi esattamente a tutte le faglie attive dell’Appennino Centrale. Per intenderci, quelle che descrivevamo prima, che nel loro “naturale” muoversi, hanno prodotto un cratere di 1000 chilometri quadrati, in cui si stenta a riconoscere luoghi familiari, paesaggi abituali, strade, case, crinali e profili di montagne. Non tanto tempo fa: 11 mesi fa. Non isolatamente, occasionalmente o eccezionalmente: L’Aquila nel 2009, Nocera, Foligno, Assisi, Colfiorito, nel 1997, e via indietro nel tempo con intervalli ridicoli: non di secoli come ci si aspetterebbe dalla letteratura tramandata e casistica geologica, ma con accelerazioni che a stento traguardano il decennio.
Quelli della mia età ne hanno ricordati almeno tre di terremoti devastanti nella zona di Norcia, in Valnerina, e infiniti altri di cui non si tiene neppure il conto. Fino a pochi anni fa a Norcia ai cittadini arrivavano ancora le cartelle delle tasse e delle bollette “sospese” del terremoto del ’79. Più di uno di loro, dal 30 ottobre vive nei container di latta di quel sisma lì. Avete capito bene: ci vivono! Con bambini piccoli, anziani, familiari malati, e animali d’affezione – ché non hanno abbandonato nessuno! – e quel poco di mobili che hanno frettolosamente raccattato dalle case crepate, rotte, spaccate. E sono già “fortunati” perché il resto della popolazione, la grandissima parte, è ancora deportato negli alberghi, scoraggiato a tornare, isolato dalla sua terra, dal suo mondo, dalla sua socialità, strappato come gli alberi spinti dalla forza della sisma, dalle sue radici.
Ci sono i dati: gli anziani stanno morendo di crepacuore. Le patologie con cui convivevano a contatto con la loro terra, i ritmi abituali, gli animali da governare ogni giorni, esaltate dalla solitudine, li stanno schiacciando. Di terremoto non si muore solo sotto le macerie; si muore un po’ ogni giorno, lontani da casa, strappati dal proprio micromondo.
Sempre in opposizione e sprezzo della natura, una certa genìa di persone (politici senza scrupoli e multinazionali accaparratrici e divoratrici di territori) gareggia con i naturali ancorché drammatici, eventi naturali, accrescendo gli effetti catastrofici prodotti da un sisma. Vero è che l’essere umano è l’unico abitante del Pianeta che distrugge scientemente e sistematicamente la sua stessa condizione di vita, e questo non depone certo a favore della sua intelligenza e della sua capacità di adattamento. Nel caso delle due tipologie ricordate poco sopra, siamo ai vertici del delirio autodistruttivo. Cosa grave è che l’effetto devastante non sarà limitato a loro, ma ricadrà su di noi, sulle popolazioni inermi che, mesi e mesi dopo il sisma, sono ancora prive di risposte certe, di un futuro dignitoso, fuori dalle loro case e dai loro territori, deportate e spiaggiate, senza più identità, sulla costa.
Ho visto con i miei occhi Visso, Norcia, Castel Sant’Angelo sul Nera, Campi, le Gole della Valnerina, la strada per Castelluccio, il torrente Torbidone, i cumuli informi di pietre e cose che erano le amatissime case dei piccoli borghi dei Sibillini. Quelle che erano tutt’uno con il paesaggio naturale, che lo identificavano e qualificavano. Li ho visti a terra, spopolati, silenziosi in modo atroce e innaturale, e ho provato il senso di insicurezza che dà l’annientamento di luoghi in cui ti sentivi sicuro, protetto, accolto. Ho visto le strade crepate come una crosta di pane troppo cotta, tonnellate di macigni rovinati in strada, nel Nera, il suolo calpestato da impronte di giganti, o sprofondato come se una bolla d’aria si fosse sgonfiata. Alberi sradicati con brani di bosco travolti e gettati via da una forza ciclopica. Ho avuto difficoltà a riconoscere i paesaggi cari e familiari, ad individuare i luoghi di sosta rassicuranti e amici nei borghi , nelle città. È difficile quando tutto è tornato solo sasso che sputa ogni tanto qualche oggetto di uso quotidiano.
Ho cercato più volte di immaginare cosa abbia vissuto e provato chi (animale o uomo che fosse), sia stato presente in quel momento: il 26 o il 30 ottobre. Non credo che per similitudine o approssimazione ci si possa arrivare. È tutto così esagerato, diffuso. Andando ad Amatrice, dove è solo rumore di ruspe e via vai di camionette dell’esercito, sullo sfondo delle cime della Laga, immote e immobili sotto i picchi innevati che ne descrivono ed esaltano contorni e dislocazioni, ti rendi conto di quanto l’Appennino Centrale sia un un mini universo contenuto e compresso fra valli, cime e borghi dislocati nei punti più improbabili e strepitosi. Di come l’uomo si sia adattato alle sue forme pur di vivere in mezzo a quella meraviglia. Ti rendi conto che Accumuli sta lì, e Forca Canapine appena un pezzetto più su. Che Norcia, Arquata, Visso, Ussita, in linea d’aria sono vicinissime. Da sempre accomunate da uno stesso destino: una terra bellissima, ma ballerina.
La gente d’Appenino lo sa da sempre che qui è così, ha accettato il rischio e ha trasmesso, tramandato la paura del terremoto da una generazione all’altra, nell’identica maniera in cui ha trasmesso tradizioni, modi di dire, modelli di vita, di saperi. Rari salti generazionali hanno fatto sì che alcune di esse l’abbiano solo sentita raccontata come una favola; quasi tutte l’hanno rinverdita coi lori ricordi e vissuti più e più volte. E a noi gente d’Appennino, che ce ne importa di costruire opere solo inutili e dannose per noi? Perché dovremmo regalare i nostri fragili e bellissimi territori alle multinazionali o a chi per loro? Perché dovremmo esporci ad ulteriori, inutili, irragionevoli rischi solo per garantirgli profitti? Intanto è passato un anno da quei giorni, e la politica non ha partorito le promesse fatte a caldo. Tutto è immoto, bloccato, cristallizzato e fermo come gli orologi delle torri crollate. I mobili delle case descrivono ancora pareti che sono cumuli di sassi a terra. Gli anziani muoiono di crepacuore negli alberghi, le strade d’accesso a paesi e città, continuano ad essere presidiate, e pare che quei pochi che ostinatamente son restati insieme alle bestie, siano chiusi in riserva. Visso, Ussita, Castel Sant’Angelo, Frontignano, Casali, Vallinfante, Gualdo, Sorbo, e i tanti altri paesi, rimangono ancora innaturalmente staccati dalla Valerina perché la strada è ancora “occupata” dal fiume.
Per noi sono i luoghi del cuore, di vita, identitari: ogni casa, ogni abitante, ogni animale selvatico o domestico, ogni sasso, ha un senso e un nome: non possiamo e non vogliamo andarcene, soprattutto vogliamo difendere la nostra terra dallo spopolamento. Per i geologi sono epicentri: Norcia, Cascia, L’Aquila, Foligno, Colfiorito. Per altri sono solo delimitazioni amministrative (ma molte di “Categoria A”, cioè a massimo rischio sismico) attraverso cui far passare irresponsabilmente Grandi Opere.
Le macerie ancora a terra denunciano una volontà di non ricostruire. Perché la montagna e la sua gente sono sempre stati un problema da risolvere, inerpicati lassù in alto come sono! Una risorsa solo per le loro risorse da portargli via: l’acqua fresca e chiara delle sue fonti per prima! Hanno sempre sfruttato quel che era possibile sfruttare: natura, ambiente, animali, uomini, senza dare nulla in cambio oltre al tentativo di imporre modelli fasulli e consumistici in ecosistemi di grande bellezza e fragilità. Ma se tutto non è a portata di tutti, se la natura fa la “cattiva”, allora… tanto vale darci un taglio netto: scoraggiare la gente a restare, metterla in difficoltà oggettive (il clima poi farà il resto), confinarla.
È intanto si affronta il secondo inverno senza cambiamenti sostanziali.
Le opzioni per fare business da una crisi sismica di questa portata e non ancora definita conclusa ai geologi, sono due (non inconciliabili): desertificare cementificando; desertificare spopolando. In entrambi i casi assistiamo a risoluzioni liquidatorie e finali, che passano sulla testa delle popolazioni tenute, da sempre e per sempre, all’oscuro di progetti rischiosi e spregiudicati. Popolazioni cui mai si è fatto percepire quale fosse il reale e assoluto valore identitario, ma anche, perché no?, economico, del proprio territorio. Estirpare, dividere, disgregare, recidere ogni legame con la propria terra, demonizzare la natura: sembra quasi di essere di fronte ad un piano per affossare l’Appennino, per appropriarsi di un intero territorio, senza chiedere permesso, imponendo scelte di puro taglio speculativo e, oltretutto, privato.
In tutta la farsa montata dai media e dalla politica sulla pelle dei terremotati, sulle loro lacrime, sulla loro disperazione, sulle promesse mancate, si è deliberatamente taciuto e nascosto che gran parte dell’area del “cratere” interessato dalle oltre 70.000 scosse della sequenza sismica attivata dall’evento del 24 agosto ad Amatrice, Accumuli, Arquata del Tronto, coincide con Parchi Nazionali, ricade in aree protette, SIC, ZPS, di pregio naturalistico assoluto, uniche e irripetibili che erano e devono tornare ad essere la ricchezza e la risorsa dei loro abitanti. Ebbene, dopo il sisma, che è comunque un evento naturale e dunque “involontario”, nell’accettato ed ineluttabile “ordine delle cose”, dovrebbero subire l’onta e il danno di opere inutili e pericolose.
L’Appennino deve tornare a vivere con la sua gente. Le popolazioni devono essere messe in condizione di tornare. Esse sono, e debbono restare, le uniche responsabili delle scelte che riguardano il proprio territorio, devono rimanere le depositarie della propria storia, arbitre del proprio futuro e custodi del proprio ambiente: naturale e culturale. Possiamo riprenderci da catastrofi naturali, non dalla violenta, pericolosa tracotanza delle multinazionali, non dalla rapina e dalla cementificazione delle nostre risorse naturali, dalla politica e dalle istituzioni centrali che ne sono assolutamente assoggettate e complici, dai media che inquadrano le nostre lacrime e le macerie delle nostre case, ma tagliano le nostre dichiarazioni veritiere e “non conformi” alle versioni ufficiali, “non opportune” perché scomode nella denuncia dell’oggettivo stato dell’arte.
Dalle prime sappiamo difenderci, abbiamo saputo conviverci, abbiamo scelto di accettarne i rischi; dalle seconde non c’è scampo, se non nella resistenza a progetti scellerati di pericolose e inutili “grandi opere”, nel coraggio e nell’ostinazione a voler tornare alle nostre montagne, a casa nostra. Perché l’Appennino è casa nostra: da qui non ce ne vogliamo andare.
Maria Cristina Garofalo