In wilderness we mountain

In wilderness we mountain. Con rispetto, di Francesca Colesanti

(già pubblicato su In movimento, supplemento de Il manifesto, 12 luglio 2016)

Un interminabile serpente che si snoda faticosamente lungo il fianco innevato dell’Everest, l’obiettivo si avvicina e scopre una catena umana d’alta quota, un ingorgo agghiacciante di aspiranti alpinisti che hanno pagato migliaia di dollari per dire di essere stati sul tetto del mondo. Così comincia Sherpa, un film documentario che racconta con onestà l’assalto agli Ottomila, la logica delle spedizioni commerciali, i rapporti con gli sherpa. Ma non ci sono solo i campi base sovraffollati dell’Himalaya a scuotere le coscienze e a porre degli interrogativi: è sufficiente guardare in casa nostra per trovare rifugi alpini trasformati in alberghi, con doccia in camera e zona wellness, appuntamenti in quota per story-telling seguiti da degustazioni di vini e prodotti locali, funivie avveniristiche che coprono enormi dislivelli a velocità mozzafiato, pareti dolomitiche addomesticate da spit e ripulite da rocce marce, crinali montuosi incoronati da pale eoliche immobili. L’elenco potrebbe proseguire a lungo e diventare via via più doloroso, poiché la montagna è un gioiello tanto prezioso quanto vulnerabile, stretto oggi a tenaglia su due fronti, quello della frequentazione ad uso e consumo di una platea sempre più numerosa ed esigente e quello, non meno incombente, dei cambiamenti climatici.

Quando, nel 1987, nasce Mountain Wilderness, il primo aspetto è quello prevalente. L’idea originaria, espressa nelle Tesi di Biella – il manifesto programmatico dell’associazione – è quella di creare un gruppo di alpinisti che, forti della propria fama e autorevolezza, si faccia portavoce dell’assoluta necessità della difesa dell’alta montagna dai tanti rischi che la minacciano e da uno sfruttamento improprio, per propugnare un’etica dell’andare in montagna rispettosa non solo del valore ambientale ed ecologico, ma anche di quello culturale e sociologico.

«Quell’idea, di alpinisti interessati non solo a salire le montagne ma anche a tutelarle, è nata qui a Roma nel corso di una cena tra Stefano Ardito, Reinhold Messner e me – ricostruisce Carlo Alberto Pinelli – Messner voleva formare una sorta di Senato di grandi alpinisti che potesse dire la sua, con autorevolezza, sullo sviluppo dell’alpinismo, soprattutto himalayano; poi le cose presero una strada diversa». A Biella, nel 1987, il Club Alpino Accademico Italiano, alleatosi con la Fondazione Sella, convoca alpinisti da tutto il mondo, dalla Cina alla Patagonia, per discutere una bozza che poi, con il contributo di tanti, in particolare di Bernard Amy, «senza dubbio il più originale e creativo», si trasforma nelle Tesi di Biella. Le Tesi prevedono anche la fondazione di una associazione chiamata Mountain Wilderness.

«Dopo, è in realtà Alessandro Gogna a mettere le gambe a questa associazione, assieme a me e a Roberto Osio, allora presidente del CAAI».

A. Gogna, 14.09.1988, discesa del Canalone del Gigio, Marmolada Pulita 1988, Dolomiti.

Poi nel corso degli anni Mountain Wilderness «è scesa di quota» e ha perso il suo prevalente orientamento extraeuropeo. Ha incluso le valli, tanto quelle nepalesi e pachistane quanto quelle alpine e si è incontrata, e spesso scontrata, con gli abitanti: se infatti in alta quota ci sono solo i frequentatori di passaggio, fruitori a vario titolo delle montagne, sherpa o alpinisti che siano, scendendo a valle si trovano i veri abitanti, con i loro stili di vita, le loro esigenze, le loro aspettative.

«Soprattutto all’inizio noi abbiamo fatto degli errori con i valligiani e con i montanari – riconosce Pinelli – pur involontariamente; abbiamo dato l’idea dei cittadini che arrivano da lontano e vogliono paracadutare dall’alto le regole di vita e di sviluppo». Mountain Wilderness si definisce un’associazione neo umanistica, paladina di un ambientalismo cui interessa l’attualità del rapporto fra l’uomo e la wilderness: quindi non un movimento volto a difendere le montagne circondandole di filo spinato, ma comunque deciso a opporsi a chi tenta di svilirne le autentiche vocazioni ecologiche ed etiche. I rapporti con le popolazioni che vivono in montagna diventano ora aspetti cruciali: «Soprattutto in Italia il ventaglio degli interessi dell’associazione si è ampliato cercando di avvicinarsi ai problemi degli abitanti, con un atteggiamento meno presuntuoso ma – sottolinea Pinelli – non incline al compromesso».

Carlo Alberto Pinelli

Insomma, lo scontro ci può essere – e nella quasi trentennale storia di MW non sono stati pochi quelli con le realtà locali, a cominciare dalla regione Val d’Aosta dove, ironizza Pinelli «abbiamo un solo socio» – ma senza un sovrappiù di incomprensioni da una parte e dall’altra .

«Una volta che ci siamo capiti, possiamo benissimo restare di idee diverse, quindi confrontarci, senza sfumature di arroganza ma senza scendere a compromessi».

È la ricerca di un difficile equilibrio, poiché sradicare tra i montanari, così come tra gli abitanti della pianura, gli pseudo miti del consumismo è un’impresa molto complessa. «C’è una frase di Hannah Arendt che cito con piacere – continua Pinelli – “quando si sceglie il male minore troppo spesso e troppo rapidamente ci si dimentica che è sempre un male”. Noi abbiamo un dovere di testimonianza e vogliamo indicare una strada, una alternativa possibile; tocca poi alla politica trovare le soluzioni».

Le esperienze maturate nel corso di questi trent’anni dalle sezioni nazionali di MW hanno fatto emergere il bisogno di fare un “tagliando” alle Tesi di Biella (che sarà discusso in un’assemblea straordinaria nel 2017 a Bardonecchia), includendo in particolare la questione dei cambiamenti climatici e del riscaldamento del pianeta che, in alta montagna prima e più che altrove, ha già determinato conseguenze devastanti e subito evidenti con il ritiro, se non addirittura la scomparsa, di alcuni ghiacciai.

1987, manifesto MW a Biella

Su questo argomento la discussione è aperta in seno a MW. Da un lato c’è chi sostiene che gli alpinisti dovrebbero comportarsi in modo tale da pesare il meno possibile sull’ambiente, per riuscire, così facendo, a rallentare il riscaldamento del Pianeta; dall’altro c’è la consapevolezza che la ristretta comunità degli appassionati di montagna, anche se si comportasse in modo da rendere sempre più leggera la propria “impronta ecologica”, non avrebbe la minima possibilità di rallentare un fenomeno di quella portata.

«È naif – sostiene Pinelli – pensare di poter invertire con i nostri comportamenti il processo del riscaldamento globale. Noi dobbiamo comportarci in modo ecologicamente corretto per un bisogno morale e una volontà di testimonianza, non perché pensiamo che questo abbia una conseguenza pratica».

I soci svizzeri di Mountain Wilderness sostengono ad esempio che non debbano essere usate le auto private per andare in montagna – proposito condivisibile laddove esista un capillare sistema di trasporto pubblico – ma anche che non si debba prendere l’aereo per andare in Himalaya. «Noi (italiani) non siamo d’accordo, perché l’esperienza della wilderness nelle grandi montagne asiatiche va vissuta, è più importante dell’inquinamento di un aereo che comunque volerebbe lo stesso».

Anche nel 1990, quando MW organizzò la spedizione Free K2 per liberare il K2 dalle corde fìsse e dai rifiuti delle spedizioni, c’era chi diceva che non bisognava prendere l’aereo per andare nel Karakorum. Ma se quell’iniziativa, che segnò una svolta fondamentale nell’approccio alle spedizioni himalayane, non fosse stata portata avanti, i campi base sarebbero ancora delle discariche. «Riteniamo che ciascuno di noi debba valutare autonomamente le modalità per diminuire l’impatto della propria presenza in montagna e, più in generale, sul pianeta. Ma la scelta del percorso non può essere incanalata in un obbligo statutario. L’importante è prendere le distanze dalla deriva consumistica».

Free K2, striscione – foto Archivio MW Italia

Chiosa Pinelli: «Come diceva Voltaire a Rousseau, “sarebbe troppo bello se bastasse salire di quota per diventare migliori”, invece in alta quota ognuno di noi si porta il fardello di tutti i difetti coltivati in pianura, il proprio quadro culturale e comportamentale deriva da come vivi in basso».

Mountain Wilderness – alpinisti di tutto il mondo in difesa della montagna – è un’organizzazione internazionale nata nel 1987 per individuare e definire le strategie da opporre alla progressiva degradazione delle montagne del mondo. È presente in Italia, Francia, Catalogna, Castiglia, Svizzera, Slovenia, Germania, Belgio, Pakistan. Tra i 25 ambasciatori di Mountain Wilderness nel mondo vi sono Bernard Amy, Chris Bonington, Kurt Diemberger, Alessandro Gogna, Fausto De Stefani. Carlo Alberto Pinelli è cofondatore e attuale presidente di Mountain Wildemess Italia. Nelle Tesi di Biella, il manifesto programmatico dell’associazione, si definisce il concetto di “wilderness montana”: quegli ambienti incontaminati di quota dove sia possibile «sperimentare un incontro diretto con i grandi spazi e dimensioni, le leggi naturali, i pericoli, e che possa stimolare una reazione vitale contro un sistema che tende ad appiattire sempre di più gli esseri umani, a circoscriverne le responsabilità, a rendere prevedibili e pilotabili comportamenti e bisogni, limitando l’autonomia decisionale ed emotiva».