Deep Inside Breuil: l’album fotografico di Matteo Forlì che documenta le infrastrutture dismesse della stazione sciistica di Breuil Cervinia.

Foto: Matteo Forlì

Vengono in mente le parole dell’artista americano Robert Smithson percorrendo l’album fotografico Deep Inside Breuil del fotografo Matteo Forlì. Esso documenta le infrastrutture dismesse della stazione sciistica di Breuil Cervinia, abbandonate a seguito della crisi economica del turismo che ha colpito quest’area montana e che non hanno trovato
un riuso attuale.
Sul fondo indifferente delle montagne si affaccia un paesaggio di rovine, di frammenti incompiuti, ma anche di edifici non finiti, già potenzialmente diruti per via della loro gestione temporanea legata a un ottimismo iniziale che non guardava alla lunga durata.
Smithson, uno dei protagonisti della Land Art e forse il suo più lucido teorico, si richiamava all’entropia, il secondo principio della termodinamica secondo cui in ogni cambiamento vi è una produzione di energia incontrollata che non è più utilizzabile. Entropia come scarto, come eccesso, come detrito quindi. Smithson interpretava come processi entropici tutti quelli riguardanti il terreno e le rocce e, con un corto circuito logico, relazionava tempo geologico, consumo incontrollato dell’ambiente post-industriale e fragilità del linguaggio. Egli interpretava tutta una serie di
luoghi “degradati” (periferie, discariche industriali, miniere abbandonate, infrastrutture in disuso) come luoghi “entropici” dove leggere una nuova geologia del deterioramento e un nuovo tipo di rovina: non la rovina prodotta dal passare del tempo ma una rovina in fieri contenuta potenzialmente in ogni processo di mutazione dell’ambiente nell’era del consumismo capitalista. Il paesaggio post-industriale diveniva per lui il nuovo parametro per leggere una durata e una materialità che sfuggono al controllo e alla certezza. In questa ricerca, Smithson e altri artisti degli anni
Settanta approfondirono la lettura di tutta una serie di ambienti dimenticati del territorio e ne raccolsero tracce e materiali, questi ultimi visti come sorta di “fossili” del futuro. I non-siti di Smithson, le sue esplorazioni delle periferie e dei depositi di detriti, le documentazioni delle periferie di Dan Graham e degli edifici industriali di Berndt e Hilla Becher non sono quindi catalogazioni esatte ma reperimenti di tracce che equiparano mutazioni fisiche e semantiche. Tempo e materialità, natura e artificio vengono indissolubilmente legati in questa lettura che parla del crollo di una durata lineare e proiettarono la realtà verso una continua frammentarietà o una durata “geologica” incontrollabile. Queste meditazioni sul rapporto tra tempo e ambiente aprono una riflessione sul funzionamento della memoria e su tutta una serie di procedimenti analogici non lineari della contemporaneità.

Foto: Matteo Forlì

Nei Passagenwerk di Walter Benjamin, le rovine e le presenze materiali della città parlano indirettamente dei meccanismi tortuosi e complessi del ricordo individuale e collettivo. Parallelamente le “rovine al contrario” di Smithson e i suoi “paesaggi entropici” erano procedimenti di configurazione che aprivano a una dimensione spazio-temporale multiforme e
dialettica.

Breuil – Cervinia è una città di fondazione turistica creata ex-novo e tutta proiettata verso il futuro la quale negli anni Cinquanta e Sessanta costruì una nuova serie di arditi impianti di risalita e sperimentò tipologie residenziali di case alte moderniste tutte tese alla conquista dell’affaccio verso il sole e il paesaggio.
Come in un romanzo di fantascienza dove un satellite è proiettato alla conquista dello spazio e tocca pianeti remoti, la storia di Cervinia è legata alla creazione di impianti di risalita che raggiungono le cime con soluzioni tecniche sempre più ardite: dalla creazione della funivia Breuil-Plan Maison a cura della Società Cervino nel 1936, alla tappa successiva che saliva tra i ghiacci del Plateau Rosà a cura della ditta Agudio nel 1939, attraverso la realizzazione dell’ardito tratto a campata unica che arrivava sulla cima del Monte Furggen grazie alla promozione del Conte Lora di Torino nel 1952 per giungere fino alla sostituzione di questi primi impianti con funivie sempre più capienti durante tutti gli anni Sessanta e
Settanta.
Cervinia conobbe dalla fine della Seconda Guerra Mondiale un boom edilizio incredibile che la trasformò in brevissimo tempo nella città delle vacanze montane della borghesia milanese e torinese. Gradatamente, ai piedi dei trampolini di lancio per le vette, sorgeva a fondovalle una nuova città di edifici alti che sperimentavano soluzioni abitative ad alta densità. Cervinia non doveva confrontarsi con preesistenze: la nuova città partiva quindi da una tabula rasa senza vincoli. L’idea di una nuova comunità a quota duemila spingeva inoltre a sperimentazioni sulla concentrazione di abitazioni e di servizi la quale era considerata più efficiente dal punto di vista dello sfruttamento immobiliare. Cervinia consentiva di sciare in tutte le stagioni dell’anno e sviluppò il concetto dello ski-total: una città autosufficiente a disposizione dello sci dodici mesi all’anno, capace di integrare un uso stagionale ed uno continuo.
Queste forme abitative e le infrastrutture che le servivano sono state irrimediabilmente messe a parte, prima con la crisi economica degli anni Settanta e poi con lo sviluppo di un turismo mobile e occasionale che ripudia la vacanza di massa. Come altre comunità turistiche di fondazione del secondo dopoguerra, Cervinia ha conosciuto una graduale dismissione che, malgrado diversi tentativi di resuscitarla, è avanzata inesorabilmente.
Oggi appare come una sorta di rovina di un futuro che non ha retto al cambiamento dei tempi e si porta appresso un hardware ingombrante e oneroso: l’architettura degli anni in cui fu creata.

Foto: Matteo Forlì

Il passare del tempo è leggibile a Cervinia nella graduale dismissione delle icone moderniste che avevano segnato l’evolversi della città. Le grandi infrastrutture di risalita come la funivia del Furggen sono abbandonate e la
carcassa della stazione di base si erge sul profilo della città senza che si abbia il coraggio né di demolirla né di ricontestualizzarla.
L’edificio lineare del garage e stazione bus all’ingresso della città, incassato in un avvallo del terreno, giace come una rovina di cemento semisepolta.
La pista di bob semisepolta dalla vegetazione appare come una gigantesca trincea artificiale che interrompe la continuità del bosco. Le parti comuni delle torri residenziali sono abbandonate o vendute per usi “privati” che aprono nuovi accessi indipendenti per esse dall’esterno.
Cervinia presenta così le conquiste della sua fondazione ma anche grandi rovine del futuro: sembra stata abbandonata così in fretta che non c’è stato tempo per eliminare gli scarti prodotti dalla crisi. E’ una città dimezzata nei suoi usi che si è spostata troppo in fretta per occuparsi dei prodotti materiali della sua opera di colonizzazione del pianeta montagna.

Foto: Matteo Forlì

Le cabine della funivia abbandonate, le funi spezzate appoggiate sui costoni, i binari di una teleferica arrugginiti, il costone eroso della pista di bob ripresi nelle fotografie di Matteo Forlì contengono in sé l’ottimismo tecnologico di quando furono create ma anche la totale assenza di una lunga durata. Proiettati sullo sfondo della montagna che rimane loro indifferente, essi appaiono ancora di più come frammenti temporali interrotti. Sono rovine moderne, fatte con tecnologie leggere e fragili che richiedono un uso e una manutenzione continua.
Una volta abbandonati, sono velocemente scaduti in uno stato di degrado materiale non più assimilabile con quello dell’ambiente circostante.
Se la “rovina romantica” del passato si riduceva gradatamente allo stato di
natura e veniva assorbita in essa, questi reperti tecnologici rimangono irrimediabilmente straniati. Possono solo “crescere” a un’ulteriore livello di degrado.
La fotografia, lungi dal celebrarli, li mostra come dato di fatto, li trasfigura nel loro contrasto con la montagna o nella loro totale scomparsa all’interno di essa senza possibilità di integrazione.

Foto: Matteo Forlì

Nell’isolare il frammento temporale dall’insieme cui apparteneva e nel proiettarlo sul campo lungo delle cime lontane, le immagini di Forlì ricollegano artificialmente due parti ormai separate e ne evidenziano lo sfasamento. La natura non è più lo sfondo della risalita, non rimanda più alla civiltà che l’ha conquistata ma rimane ambiente indifferente e
fuori scala. Essa respinge i segni della tecnologia o ne affretta la scomparsa. Se non ci fosse il paste-up di Forlì a ricordarci la coincidenza temporanea di tecnica e natura, non ne potremmo misurare la temporanea coincidenza e la distanza attuale. In ciò la sua fotografia si rivela come procedimento artificiale che avvicina per un momento realtà ormai lontane. In questo, però, ci parla del tempo, o meglio di più tempi, e meno dello spazio, diventando anch’essa procedimento analogico che documenta la relatività del trascorso, di quello che pensavamo potesse durare per sempre.
Il passato recente non diventa quindi feticcio da celebrare, non può
essere oggetto di consumo, ma può essere avvicinato solo con una contrapposizione dialettica che ne rivela la fragilità temporale.

Pietro Valle