Inverni alpini: cambiamenti climatici e sociali sulle Alpi

Riproporre oggi il modello dei grandi caroselli sciistici è sterile e improduttivo, socialmente ed economicamente. Una visione perdente. Il futuro non sono gli skilift, ma la natura e la cultura delle Alpi.

Editoriale di Paolo Crosa Lenz, 09direttore de “Il Rosa” n° 3 2017″.

Paolo Crosa Lenz

Gli inverni alpini stanno cambiando. Per cinquecento anni, dal XIV agli inizi del XX secolo, l’inverno fu il tempo del silenzio, di comunità alpine relegate in una solitudine assoluta ai piedi dei ghiacciai, lunghi mesi trascorsi aggrappati ai “fornetti” di pietra ollare, quando solo il rombo delle valanghe era fonte di inquietudine profonda e la quotidianità era scandita dall’abbeverata alle mucche e dall’ansia che il fieno accumulato bastasse per raggiungere la primavera. L’inverno, a partire dal XVI secolo, era il tempo delle donne, dei vecchi che trasmettevano la memoria e la storia della comunità, dei bambini che imparavano i confini del bene e del male narrati da leggende ancorate alle origini dell’uomo contadino di montagna. Non era il tempo della lettura, ma della parola. Gli uomini erano via, migranti verso le città o i mercati dell’Europa. Quasi profughi, in un’epopea di pregnante attualità.

Alla fine dell’Ottocento, la seconda rivoluzione industriale e il formarsi di una borghesia benestante, spesso colta e con “tempo libero” (altri lavoravano per loro) portò alla nascita del turismo alpino e alla comparsa di nuove professioni allora elitarie: l’albergatore, la guida alpina. Imprenditori coraggiosi seppero cogliere la direzione del vento, capirono che le Alpi stavano cambiando. Nacquero alberghi di lusso, le strade “carrozzabili” ruppero un isolamento secolare, ma tutto fu relegato alla breve stagione estiva. Gli inverni rimasero quelli di sempre.
Fu l’avvento dello sci, agli inizi del Novecento, a cambiare gli inverni alpini. Le storiche competizioni tra “valligiani” (Formazza e Macugnaga contro Cortina d’Ampezzo) portarono la nostra gente ad aprirsi al mondo. L’inverno come occasione di conoscenza e confronto e non più di chiusura. Una stagione da attendere con gioia. La neve come una nuova libertà.
Con il secondo dopoguerra, l’industria della neve portò al raddoppio della stagione turistica: nacque il turismo invernale. Skilift e funivie, alberghi e “punti di ristoro” cambiarono il paesaggio alpino. Una nuova ricchezza, apparentemente facile e senza fine, inondò le Alpi. Il silenzio degli inverni alpini venne rotto non più solo dal rombo delle valanghe, ma quotidianamente dalla musica delle radio commerciali rilanciate dagli altoparlanti sui piloni di seggiovie e skilift. La città si era trasferita in montagna. Avvenne una colonizzazione culturale, spesso devastante socialmente, che strideva con l’ambiente e i tempi della vita “in alto”.

Oggi, agli inizi del Terzo Millennio, le Alpi sono investite da due tipi di cambiamenti: climatici e sociali. Il global warming delinea un nuovo volto alpino: sempre più verde, sempre meno bianco. Negarlo è solo ideologia, non scienza. I cambiamenti sociali sono costituiti dal formarsi di “nuovi montanari” che usano il computer e sanno l’inglese, sono consapevoli che la loro economia alpina non sarà più quella dei genitori. Riproporre oggi il modello dei grandi caroselli sciistici è sterile e improduttivo, socialmente ed economicamente. Una visione perdente. Il futuro non sono gli skilift, ma la natura e la cultura delle Alpi. Un bene che i nostri vecchi ci hanno lasciato e ai quali dobbiamo essere grati. Il futuro è comprendere, come hanno fatto i montanari di fine Ottocento, che il vento sta cambiando.

Paolo Crosa Lenz