“La neve artificiale non può essere la soluzione alla crisi climatica”

Il docente di economia dell’ambiente Carlo Giupponi descrive le strategie di adattamento a inverni sempre più caldi e innevamenti scarsi: “Le banche non danno più credito a chi non valuta il riscaldamento globale”. di Cristina Nadotti. Copyright: La Repubblica

La stagione appena cominciata potrà anche essere positiva perché la neve non manca, ma ciò non esclude che si debba ripensare l’economia delle località sciistiche valutando il cambio climatico. Lo ribadisce Carlo Giupponi, docente di Economia dell’ambiente a Cà Foscari, responsabile di diversi progetti europei e nazionali nei settori dell’adattamento ai cambiamenti climatici, della gestione delle acque, della politica agroambientale e dell’inquinamento idrico. “Istituzioni e operatori locali si stanno ponendo il problema della mancanza di neve – dice l’esperto – tanto che abbiamo studiato ed elaborato analisi sull’area delle Dolomiti di Belluno in vari progetti, nei quali erano coinvolte diverse istituzioni dell’arco Alpino, anche transfrontaliere. Il turismo invernale va ripensato alla luce della sostenibilità e del cambio climatico”.

Quali sono le risposte possibili?
“È vero che ci si pone il problema, ma non sempre c’è il modo di analizzare i problemi con freddezza e solidità scientifica che permettano di programmare a lungo termine e non solo per l’anno successivo. Gli operatori locali hanno una iniziale ritrosia a parlare di questi temi, sanno che la mancanza di neve, o piste sempre più difficili da mantenere a causa delle temperature elevate, sono un elemento di debolezza in prospettiva per le loro attività. Così è sempre più difficile far tornare i conti, per gli impianti a fune spesso ci vogliono sovvenzioni pubbliche, sono in pareggio o in attivo soltanto se hanno una stagione che si prolunga anche in estate. Noi ricercatori veniamo percepiti un po’ come delle cassandre, ma dopo l’iniziale ritrosia c’è molta apertura nella ricerca di nuovi modelli di sviluppo locale, che si affranchino dalla monocultura dello sci da discesa: le piste da sci diventano piste di downhill per le mountain bike, si investe sull’escursionismo con le racchette d’inverno e le biciclette d’estate, o sulle strutture per il wellness”.

Ci sono differenze a seconda dell’altitudine in cui operano le imprese?
“In base alle nostre esperienza la possibilità di consolidare uno sviluppo turistico a qualsiasi quota c’è nella multistagionalità. Se si punta soltanto allo sci da discesa pensare a investimenti da fare a quote a partire dai 1500-1700 metri è rischioso, soprattutto se si ragiona in ottiche trentennali. Non siamo solo noi che ci occupiamo strettamente di cambio climatico a porci questi problemi, visto che anche per la finanza la considerazione del rischio climatico è ormai prassi e quindi l’accesso al credito può diventare difficile. Con gli operatori riluttanti il problema del credito da ottenere per gli investimenti è spesso una delle chiavi per suscitare interesse e stabilire una collaborazione”.
 

10 Jan 2006, Sankt Anton am Arlberg, Austria — Snow Cannon Spraying New Snow — Image by © Henrik Trygg/Corbis

Si prospetta una transizione ecologica del turismo invernale?
“Sì, ma con mille sfaccettature da approfondire. Qualcosa è già avviato, per esempio nell’ambito dei trasporti, perché i segnali indicano che si va verso una limitazione del traffico, investimenti su trasporti verdi, qualche tentativo di investire sul trasporto ferroviario. Come detto, è indispensabile, perché se in montagna ci sono sempre state stagioni discontinue, ormai è chiaro che sui pendii esposti a sud non si tratterà più di avere una stagione migliore o peggiore, ma di non avere la possibilità di preparare le piste, o di perdere il lavoro fatto per prepararle. Abbiamo già studiato a fondo situazioni particolari quest’anno: per preparare gli impianti per l’Immacolata si doveva fare il fondo di neve artificiale a novembre. Si è avuto però un autunno incredibilmente caldo, così nonostante poi abbia nevicato a inizio dicembre molti si sono trovati impreparati. Ora magari ci sarà un inverno pieno di neve, ma se si è perso il primo segmento di stagione, dal punto di vista economico si è già in perdita. In futuro ci saranno sempre più ondate di calore e abbiamo avuto la prova di uno zero climatico a quote sempre più elevate: bastano questi due elementi a far saltare il bilancio”.

Ha parlato di neve artificiale. Dal punto di vista economico è sostenibile?
“La combinazione tra carenza di acqua e il drammatico aumento dei costi dell’energia rende sparare la neve un lusso. Inoltre, in termini di rapporto tra costi e benefici, il ricorso all’innevamento artificiale trova giustificazione solo in una stagione stabile. Ma torniamo al problema delle ondate di calore: queste, in termini relativi possono avvenire anche durante la stagione sciistica causare interruzioni della stagione, perdite di denaro precedentemente investito per la neve artificiale e in generale dei costi elevati, che cambiano totalmente lo scenario”.

Per i vostri studi, date le variabili economiche e climatiche, questa stagione potrebbe essere fondamentale?
“La congiuntura economica di transizione, unita alla combinazione di un’estate siccitosa e un autunno caldo, rende particolarmente interessante studiare l’andamento di questa stagione e accertare quali saranno i ritorni economici e i costi. C’è da dire anche che lo sci da discesa è diventato uno sport sempre più elitario. Osserveremo la stagione, l’importante è cercare di anticipare i problemi e garantire che se mantenere una pista per lo sci diventa sempre più difficile ci siano alternative soprattutto consorziando e mettendo in rete più località e valli, facilitando i trasporti e condividendo strutture e servizi. Questo è un aspetto sul quale spesso in Italia arriviamo in ritardo, mentre i turisti internazionali ci hanno già mostrato ad esempio che non vogliono usare la macchina in vacanza e non vogliono arrivare a passeggiare per paesi pieni di Suv. Questa sensibilità ambientale è dei ceti più abbienti, proprio il target al quale si rivolge un’ampia fetta delle imprese in montagna: se si vogliono mantenere quei clienti, bisogna andare incontro alle loro aspettative”.

Cristina Nadotti