Non sarà l’industria della neve a salvare la montagna
Le nostre osservazioni in merito all’intervista alla Presidente degli impiantisti europei Valeria Ghezzi, pubblicata su Repubblica il 10 dicembre 2022. LINK
Così rispondeva Valeria Ghezzi al giornalista di Repubblica: “Servono impianti di risalita a impatto zero. Oggi, non solo per legittimo interesse, siamo i più importanti custodi dell’ambiente in alta quota”. E sul consumo: “Rispetto a dieci anni fa usiamo un quinto dell’acqua che serve per innevare le piste, un decimo dell’energia”
Cosa si raccoglie dall’intervista rilasciata dalla Presidente degli impiantisti europei Valeria Ghezzi pubblicata su Repubblica l’11 dicembre 2022, giornata internazionale della montagna? Non certo una riflessione sulle criticità delle montagne italiane, ma un solo punto di vista: nonostante i cambiamenti climatici in atto, il futuro delle montagne si costruisce con la diffusione della rete degli impianti di risalita.
L’associazionismo ambientalista non ha mai negato che l’industria dello sci nel passato abbia contribuito allo sviluppo economico di alcune vallate. Certo è che oggi molte aree stanno soffocando in una overdose di turismo che si porta dietro problemi di traffico e inquinamento, fuga dei giovani a causa di un costo della vita troppo alto, impossibilità di investire in lavori di alta qualità, assenza di alloggi a costi accessibili, carenza di servizi come scuole e ospedali.
La montagna italiana, per rispondere all’avanzante spopolamento che oggi intacca anche zone ad elevata intensità turistica, ha bisogno di ben altro: servizi sanitari e assistenziali potenziati, l’uscita dalle monoculture economiche come quella dello sci e la riconversione verso forme di frequentazione meno aggressive.
Gli impianti da sci sono sostenibili?
La signora Ghezzi afferma poi che le risorse naturali utilizzate per sostenere l’industria dello sci siano rinnovabili. Non lo è certo il paesaggio. Si pensi a come siano state devastate le Dolomiti dichiarate patrimonio naturale dell’umanità e ridotte a una ragnatela di cavi, piloni e strade d’alta quota. Si pensi alle grandi stazioni sciistiche delle Alpi e financo gli Appennini dove ancora si assiste a tentativi maldestri di potenziare comprensori dove la neve è ormai una chimera. I boschi distrutti dalle piste non si possono rinaturalizzare con qualche centinaio di piante messe a dimora casualmente. Non è vero che l’acqua usata per l’innevamento venga restituita in modo naturale nell’ambiente, per lo più va dispersa. Rumori e disturbo antropico danneggiano la fauna selvatica, specie quella a rischio di estinzione (Tetraonidi). I bacini artificiali, costruiti solo grazie all’incentivazione economica pubblica che arriva a coprire l’80% della spesa, non servono né alla protezione civile, né come riserva per l’agricoltura, né tanto meno a recuperare zone umide, per lo più queste distrutte da piste di sci e conseguente scellerata urbanizzazione (vedasi Cortina o Latemar). Come del resto, escluse situazioni minoritarie, gli impianti di risalita non sono un’alternativa alla mobilità, nonostante si voglia spacciarle come tali. Non c’è traccia di pendolari che vanno a lavorare in funivia, né di bambini che frequentano la scuola grazie a una seggiovia. L’impiantista oggi non è il custode delle alte quote: rappresenta il più aggressivo consumatore di qualità, paesaggio e territorio. Come non è vero che dallo sci dipenda il destino della montagna, soprattutto ora, con gli scenari che la scienza ci prospetta: temperature più alte, meno neve e meno acqua.
Ripensare lo sci
Nell’insieme l’articolazione del pensiero della signora Ghezzi è una difesa d’ufficio comprensibile di una industria che soffre una crisi profonda, anche economica e che sopravvive solo grazie a generose iniezioni di soldi pubblici. Un’industria che non va demolita ma certamente ripensata e ridimensionata. Costruire impianti nuovi è ben diverso rispetto ad efficientare quelli esistenti, sia in termini ambientali che paesaggistici. E’ necessario ripensare lo sci razionalizzando l’esistente e non certo potenziando l’innevamento artificiale o creando comprensori faraonici come della Monterosa Spa sperando di risolvere il problema dell’accorciamento delle stagioni.
Una difesa d’ufficio, quella della Ghezzi, che cade nel grottesco quando si afferma che con l’innevamento artificiale si salvano i ghiacciai. Come sta a dimostrare l’attività in Marmolada o in val Senales, il ghiacciaio non si salva né con i teloni (anzi, si inquinano acque salubri), né con l’innevamento artificiale.
Olimpiadi insostenibili
Le prossime olimpiadi invernali si stanno rivelando una diffusa speculazione ai danni della montagna e di ambiti naturali pregiati anche a causa dell’apporto degli impiantisti: si pensi alla imposizione dei nuovi collegamenti da Cortina verso aree intonse e di alta valenza ambientale, cioè verso il Civetta, Arabba, val Badia, o alle insostenibili follie previste nell’area del Tonale verso Bormio e Livigno.
Se la signora Ghezzi vuole dimostrare la buona fede dell’industria che rappresenta, si metta in gioco sui tavoli dove ancora, forse, si possono ridimensionare progetti faraonici che lasceranno debiti ecologici e finanziari per le prossime generazioni.