Sfregio ad alta quota sulla pista di sci Zermatt-Cervinia: ma vento e neve bloccano la prima gara di discesa libera di Coppa del mondo.
Le ruspe al lavoro sul ghiacciaio della montagna icona appaiono uno scempio. Resistere a certe forzature è un dovere morale. Di Mario Tozzi. Copyright: La Stampa.
Se a qualcuno sembra normale, anzi salutare, come sostenuto dai protagonisti dell’impresa, muoversi con le ruspe sui ghiacciai di alta quota per spostare neve dentro crepacci e fratture in modo da trasformare un circo o una lingua glaciale in una pista da sci, allora vuol dire che non restano più tante speranze di resipiscenza per una specie destinata al declino proprio mentre si sente padrona del mondo.
Vedere le immagini delle ruspe sul ghiaccio del Cervino trasformare l’antica icona della montagna per antonomasia nell’ennesimo «oggetto» di consumo, però, non fa solo dubitare dell’intelligenza dei sapiens, desta anche un sano risentimento contro chi si permette di utilizzare i suoli demaniali, seppure legittimamente (e spero scopriremo come sia potuto accadere), per un uso privato. Si potrebbe anche dire che nel nostro tormentato Paese questa è una pratica comune: gli stabilimenti balneari che si appropriano per decenni, con strutture invasive e non removibili, delle coste demaniali o perfino i ristoratori che hanno ormai occupato manu militari molto più degli spazi esterni che erano stati loro concessi in tempi di pandemia. Però forse questa è proprio l’occasione per porre un limite, prima di ritenere che ogni cosa sia fattibile purché sia possibile.
Qualsiasi intervento dei sapiens sui ghiacciai comporta una reazione da parte dei ghiacciai stessi che, come si dovrebbe sapere, sono elementi dinamici del territorio e del paesaggio, cioè sono in continuo, perenne movimento. Fratture e crepacci sul «dorso» sono la reazione fragile del movimento plastico di scorrimento sul fondo. I ghiacciai creano e spostano sedimenti (le morene) e, un tempo, crescevano e poi diminuivano, mentre oggi tristemente diminuiscono soltanto, di superficie e di volume. Sono il nostro termometro naturale: di fronte allo scettico che nega che oggi faccia più caldo che in passato, puoi sempre mostrare il confronto tra le immagini di venti o trent’anni fa e quelle di oggi di uno stesso ghiacciaio, e vedrai che anche il più irriducibile si ricrederà. Ma sarebbero anche la nostra più grande protezione rispetto alla crisi climatica: come un cubetto di ghiaccio solitario in un bicchiere fonde quasi subito, così un ghiacciaio isolato e ridotto di dimensioni cederà più facilmente al riscaldamento globale. Per questo non si devono assolutamente toccare i ghiacciai e, anzi, bisognerebbe lasciarli in pace: nessun impianto di risalita, niente eliski (per carità), nessuna infrastruttura, niente neve artificiale. Meno li tocchi, meglio staranno.
Infine i ghiacciai sono la più grande riserva di acqua dolce a disposizione dei sapiens e degli altri viventi: solo il 3% delle acque del pianeta Terra è dolce, e circa il 70% è immobilizzata nei ghiacciai. Non dovrebbe essere difficile perciò comprendere che i ghiacciai sono di tutti, esattamente come il Colosseo non appartiene soltanto ai romani, ma a tutto il mondo, e non sarebbe sopportabile che venisse trasformato in un autosilo perché nella capitale non ci sono parcheggi. Per tutte queste ragioni sono condivisibili le spiegazioni addotte da Paolo Cognetti (Repubblica, 8 novembre) per lottare contro lo scempio che si sta mettendo in atto sotto il Cervino: resistere a queste forzature micidiali per l’ambiente e per il paesaggio è un dovere morale e si deve tradurre un una pratica, rispettosa, ma non negoziabile che costringa a rivedere la follia di una logica di profitto che non ha alcun senso se non per chi lo ricava.
Ma si può anche andare oltre. Il tempo degli sport invernali, sia nella versione di massa che in quella elitaria dei ghiacciai, sta per finire ed è inutile tentare di rianimare un malato agonizzante o tentare sciagurate operazioni per soli ricchi come quella di infrastrutturare le altissime quote delle Alpi per poter disporre ancora di neve nelle stazioni invernali di lusso. Né tantomeno ha senso proporre coppe del mondo e Olimpiadi su piste che saranno tanti striminziti nastri biancastri in mezzo al mondo dei boschi verdi (quando va bene) o in mezzo alle frane e ai torrenti di fusione delle nevi perenni. L’innevamento artificiale è una iattura ambientale che va evitata come il fumo negli occhi, comportando problemi di struttura della neve, di consumo di acqua spesso esotica e di energia. E inducendo un uso diseducativo della montagna, secondo cui tutto ciò che sia possibile, solo per quella ragione, si fa. Ripensare le montagne provando a visitarle comunque, in questo momento di passaggio epocale, in maniera dolce, senza toccarle più, cancellando finalmente centinaia di chilometri di impianti e infrastrutture che già oggi non si utilizzano più, chiudendo al traffico veicolare i passi più frequentati, che si intasano come Milano al rientro domenicale, cancellando la stessa dizione di industria della montagna, che già solo scritta fa accapponare la pelle. Sostituire il verbo godere al verbo sfruttare già ci farebbe fare un considerevole passo in avanti, che mai come questa volta consiste soprattutto in un passo indietro.