Un altro turismo è possibile

Il turismo intensivo, che risponde perlopiù al mercato dello sci e alle sue derivazioni, è un’industria in gran parte slegata dal territorio in cui opera. Esiste un secondo modello complementare al primo, non concorrenziale, che potremmo definire “artigianale”. Di Enrico Camanni.

Per gentile concessione di Dislivelli

Enrico Camanni

 

La realizzazione del progetto Sweet Mountains sta confermando l’intuizione da cui partimmo quindici mesi fa: le montagne delle Alpi occidentali – e non solo quelle, naturalmente – offrono un’eccezionale offerta di proposte culturali, naturalistiche e sportive che non viene intercettata e promossa dai modelli del turismo intensivo, ma dalle piccole realtà ricettive e dagli operatori più profondamente inseriti nel tessuto del territorio. Solo questi soggetti, talvolta rappresentati dalle amministrazioni, talvolta soli e isolati, generalmente sconosciuti al grande pubblico, sanno offrire al visitatore un panorama organico della loro valle, all’insegna di un
turismo responsabile e sostenibile che colleghi la città alla montagna e non contrapponga il valligiano al forestiero, ma li avvicini.
È evidente che oggi esistono due turismi sulle Alpi (e non solo).
Convivono ma non si parlano quasi mai. Non per pregiudizio, ideologia, antipatia o altro, ma perché rispondono a modelli di mercato lontanissimi, si muovono autonomamente e puntano a clienti diversi. Camminano in parallelo senza incontrarsi, senza scambiarsi, senza “contaminarsi”. Sono due rotaie puntate su obiettivi diversi, e seguono schemi opposti per raggiungerli.

Il turismo intensivo, che risponde perlopiù al mercato dello sci e alle sue derivazioni, è un’industria in gran parte slegata dal territorio in cui opera. Segue modelli di promozione e sviluppo applicabili a Dubai come sulle Alpi e, come ogni industria, ha bisogno
di crescere sempre per non morire. A dispetto della crisi economica, del costo dell’energia, del riscaldamento globale, dell’invecchiamento della popolazione, e anche della crisi culturale di un certo modo di “fare montagna”, consumista e passivo, l’industria dello sci è costretta a investire ininterrottamente in nuovi impianti, nuovi cannoni, nuove offerte e nuovo appeal, ricorrendo a una bella fetta di finanziamenti pubblici, come dimostra l’inchiesta di
Dislivelli che pubblicheremo nei prossimi giorni.
In altre parole lo sci è pagato da tutti noi, e non è sbagliato dire che chi compra un biglietto giornaliero o stagionale lo paga due volte. E paga anche chi non scia.
Esiste per fortuna un secondo modello complementare al primo, non concorrenziale, che potremmo definire “artigianale”. Profondamente inserito nel territorio in cui opera e legato alle attività produttive di piccole e medie dimensioni, dalla caseificazione di qualità all’agricoltura biologica, dalla divulgazione eco museale alla promozione escursionistica, è un turismo molto elastico e molto sweet (sweet & slow, ci piace dire), capace di adattarsi
senza traumi alla domanda modulando l’offerta in base al luogo, al tempo e alla nuova congiuntura climatica. È un turismo morbido  che non danneggia l’ambiente ma lo valorizza, non urla ma dialoga, e cresce lentamente con la possibilità di fermarsi, riflettere,
correggere e ripartire.

Scialpinismo in Val Formazza

Il turismo sweet utilizza e valorizza i beni di cui l’Italia è ricchissima senza saperlo: la natura, la cultura e la bellezza. E si integra molto bene con la quarta offerta che tutti ci invidiano: l’agricoltura di qualità. In Alto Adige e in tutti i paesi di lingua tedesca ha già raggiunto fatturati considerevoli, mentre sulle Alpi occidentali e centrali  stenta e inciampa, eppure esiste, ci crede e prova a uscire dallo stato carsico alla luce del sole. A quel punto sarà in grado di offrire migliaia di posti di lavoro, tenacemente ancorati al territorio.
Naturalmente è una questione di cultura, innanzi tutto. Se fosse  solo questione di soldi avremmo già saputo vedere e valorizzare le straordinarie ricchezze dei nostri territori trasformandole in un turismo responsabile e capace di futuro. Ma siccome gli investimenti turistici esistono, e sono altissimi, ci siamo permessi di giocare con una provocazione: se ipotizzassimo di investire il dieci per cento di quell’altro turismo, di quei soldi pubblici, in nuove forme di frequentazione turistica, che cosa succederebbe alle nostre montagne?
Ecco la domanda precisa: «Premesso che l’industria dello sci, nonostante l’ingente contributo pubblico che pesa sulle tasche dei contribuenti, è sempre meno sostenibile dal punto di vista economico (nonché ambientale), ipotizziamo di sottrarre a questo comparto un 10% dei finanziamenti annui per investirli in forme di turismo alternativo e di più ampio respiro stagionale. Lei da dove partirebbe? Che priorità individuerebbe? Che strategia di investimenti proporrebbe?»

Enrico Camanni