Decreto Foreste: un passo avanti o un passo indietro?
Lo scorso 16 marzo 2018 il Consiglio dei Ministri ha approvato lo Schema di Decreto legislativo in materia di “Foreste e Filiere forestali”. Il Decreto ha scatenato innumerevoli e contrastanti reazioni.
Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione di Dislivelli, un articolo di Renzo Motta, Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari (DISAFA), Università degli studi di Torino.
Decreto Foreste: un passo avanti o un passo indietro?
Lo scorso 16 marzo 2018 il Consiglio dei Ministri ha approvato lo Schema di Decreto legislativo in materia di “Foreste e Filiere forestali”. Nelle ultime settimane il provvedimento è stato oggetto di una vivace discussione che ha visto come protagonisti la comunità scientifica, la società civile e le associazioni ambientaliste. I toni, e spesso anche le argomentazioni, della discussione sono stati vivaci ed eccessivi in relazione allo scopo e al contenuto del provvedimento.
Occorre muovendosi con attenzione nella normativa molto articolata che riguarda le foreste italiane, definire con precisione quali sono gli scopi e qual è l’ambito in cui interviene il decreto. Sulle foreste, nella legislazione italiana, hanno competenza tre ministeri: il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. Mentre i primi due hanno competenza primaria rispettivamente su ambiente e paesaggio, il terzo ha solo una funzione di indirizzo e coordinamento in quanto la competenza primaria è delle regioni e delle province autonome (Decreti delegati 11 del 1972 e 616 del 1977). Questo è il motivo per cui la norma non ha seguito un iter parlamentare tradizionale, ma il parlamento ha delegato il governo attraverso una legge (L 28 del luglio 2016 n. 154) per effettuare, di concerto con i tre Ministeri e con le regioni e le province autonome un “riordino e semplificazione normativa in materia di agricoltura, selvicoltura e filiere forestali”.
Il decreto approvato dal Consiglio dei Ministri sostituisce il precedente decreto (DL 227 del 2001), che all’articolo 1 prevedeva “le disposizioni finalizzate alla valorizzazione della selvicoltura quale elemento fondamentale dello sviluppo socioeconomico”.
Il decreto non interviene quindi sul regime di tutela delle foreste e sui vincoli esistenti (che sono di competenza di altri ministeri con i quali il Decreto è stato concertato) ma interviene sulla gestione sostenibile delle foreste con funzione di indirizzo e coordinamento, in quanto la competenza primaria rimane regionale. Occorre aggiungere che il Decreto è stato necessario per adeguare la normativa a Direttive e politiche forestali e ambientali della Ue (Forest Europe 2015) e per il fatto che nel 2017 è stata istituita una nuova Direzione foreste presso il Ministero delle politiche agricole, il Corpo forestale dello stato è stato assorbito dall’Arma dei carabinieri ed è quindi stato necessario ridefinire compiti e ambiti di competenza.
Il provvedimento riguarda le foreste italiane che sono in una fase di forte espansione ormai da diversi decenni. Infatti, dopo aver raggiunto un minimo storico tra il XIX e il XX secolo (12% di coefficiente di boscosità), la copertura forestale è andata gradualmente aumentando fino a raggiungere quasi il 40% della superficie territoriale. Nel 2018, per la prima volta dopo secoli, il territorio nazionale coperto da foreste ha superato quello utilizzato a fini agricoli. L’espansione del bosco è stata principalmente provocata dall’abbandono dei territori divenuti marginali per l’agricoltura e dalla forte diminuzione delle attività zootecniche ed è avvenuta in contemporanea con una drastica diminuzione delle utilizzazioni forestali. Attualmente nel nostro paese si utilizza circa un quarto dell’incremento annuo e questo tasso di prelievo è il più basso dell’Europa continentale dove la media è superiore al 50%. Per fare un confronto, la produzione di legname (metri cubi prelevati) in Francia e Germania è oltre 10 volte quella dell’Italia, a partire da una copertura forestale quasi equivalente per la Germania e leggermente superiore per la Francia. La naturale ricostituzione ed espansione del bosco è stata accompagnata negli ultimi decenni da una particolare attenzione alla conservazione e valorizzazione degli aspetti naturalistici. L’Italia è uno dei paesi europei con la più alta incidenza di foreste protette (Parchi e aree natura 2000 interessano oltre il 27% delle foreste rispetto alla media europea del 21%). Ma anche nei boschi non compresi in aree protette, il regime di tutela è tra i più rigorosi d’Europa e un proprietario forestale (pubblico o privato) non ha mai la piena disponibilità del bene, ma l’utilizzo della foresta è sempre subordinato all’interesse pubblico. Infatti, fin dal 1923 la maggior parte delle foreste italiane (attualmente l’86,7%) è soggetta al vincolo idrogeologico (che riconosce alle foreste un ruolo importante nella regimazione delle acque e impone per questo prescrizioni e limitazioni alle modalità di gestione) e, dal 1985, il 100% delle foreste (caso unico in Europa) è anche soggetto a vincolo paesaggistico.
L’80% del legno arriva dall’estero
L’Italia è uno dei più importanti paesi del mondo nella trasformazione del legname. La “filiera legno”, cioè l’insieme delle attività imprenditoriali dalla gestione al taglio del legname e sua trasformazione nel prodotto finito, genera circa il 2% del Pil e dà lavoro a oltre 300.000 persone, senza considerare l’indotto. Il nostro è uno dei più importanti paesi produttori ed esportatori di mobili e ha una consolidata capacità produttiva nel settore cartario e del packaging, tutte attività economiche che rientrano nel sistema della circular bio-economy cui l’Unione Europea (Ue) ha aderito pienamente per la sua strategia di sviluppo al 2030. Tuttavia, la capacità produttiva del settore industriale e artigianale italiano si è mantenuta e consolidata non nella logica di un “sistema foresta-legno” nazionale, al pari di quello agricolo, ma con un progressivo divario tra la domanda interna di materie prime e le attività forestali produttive, che ha avuto come causa-effetto la crescente dipendenza dall’importazione di legname e semilavorati dall’estero. L’Italia è diventata la seconda importatrice netta di prodotti in legno in Europa (dopo il Regno Unito) e importa oltre l’80% del fabbisogno legnoso dall’estero.
Questa contraddittoria situazione di espansione della foresta sul territorio nazionale e di progressivo aumento della dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento comporta il verificarsi di problemi di carattere ambientale, sociale ed economico e, certamente non da ultimo, etico.
Problemi ambientali: a differenza di quanto avviene in Italia e negli altri paesi ad alto tasso di sviluppo economico, le foreste del sud del mondo sono soggette ancora a forti processi di degrado e deforestazione. L’UE, consapevole di questo problema, ha emanato il Regolamento 995/2010 sulla Due Diligence, che richiede una tracciatura di tutto il materiale legnoso venduto nella Ue. Ciononostante, si stima che il 25% del legname importato in Europa sia di origine illegale. Diversi lavori scientifici hanno dimostrato come l’importazione di legname provoca un aumento di impatto ecologico e un forte incremento di emissioni di Co2 in atmosfera in altri Paesi, anche perché il trasporto di grandi quantità di legname su lunghe distanze richiede un significativo consumo di combustibili fossili.
Problemi sociali ed economici: gli scenari per i prossimi decenni evidenziano una riduzione della disponibilità di legname sul mercato globale, sia perché le risorse mondiali stanno diminuendo, sia perché molti Paesi in via di sviluppo ricchi di foreste si stanno comprensibilmente e correttamente organizzando per aumentare i livelli di trasformazione interna dei prodotti forestali. Di conseguenza, nel prossimo futuro non saremo in grado di mantenere gli attuali tassi di approvvigionamento dall’estero. Per incrementare la produzione legnosa italiana sarà quindi probabilmente necessario intensificare la produzione fuori foresta o in quelle porzioni di territorio maggiormente vocate da un punto di vista biofisico e adeguatamente servite da infrastrutture che consentano le utilizzazioni a costi ragionevoli. Si tratta quindi di progettare una “intensificazione sostenibile” nell’uso delle risorse, prevedendo, nei piani forestali di competenza regionale, di destinare porzioni di territorio alla protezione diretta e alla conservazione della biodiversità, e altre in cui valorizzare la produzione, sempre nel rispetto dei criteri di sostenibilità.
Problemi etici: come già sottolineato, la deforestazione e il degrado delle foreste interessano soprattutto Paesi in via di sviluppo, nei quali il legname viene spesso tagliato illegalmente, in zone di conflitto o in assenza di norme o controlli che tutelino l’ambiente e la sostenibilità forestale. Questa attività impoverisce ulteriormente le popolazioni locali e contribuisce ai flussi migratori da questi paesi ai paesi più ricchi. Dall’altro lato, esiste anche una responsabilità nel garantire un equo sviluppo a livello nazionale, con particolare riferimento alle aree montane e alle aree interne. Già la legge 97 del 1994 (Legge sulla montagna) richiamava la necessità di adottare per la montagna “formule di tutela e di promozione delle risorse ambientali che tengano conto sia del loro valore naturalistico che delle insopprimibili esigenze di vita civile delle popolazioni residenti”. Più recentemente, il problema è stato affrontato soprattutto nell’ambito dell’Agenzia per la coesione territoriale. Limitarsi alla protezione passiva delle foreste e del territorio di montagna, come richiesto da alcune voci critiche sul Decreto approvato, aumenterebbe il dissesto idrogeologico e i rischi per le popolazioni che vivono in montagna e richiederebbe comunque interventi di compensazione per il mantenimento del tessuto economico-sociale e dei servizi ecosistemici, incrementando lo spopolamento delle aree montane o rischiando di alimentare una politica assistenzialistica.
A questo proposito l’Ue (Risoluzione Parlamento Europeo, 28 aprile 2015, “Una nuova strategia forestale dell’Unione Europea”) chiede agli stati membri di valorizzare, in modo sostenibile, il capitale naturale e mette in evidenza che “l’uso del legno e di altri prodotti a base di legno come materie prime rinnovabili e non dannose per il clima, da un lato, e una gestione sostenibile delle foreste, dall’altro lato, svolgono un ruolo importante per il conseguimento degli obiettivi sociopolitici dell’Ue, come la transizione energetica, la mitigazione e l’adeguamento al cambiamento climatico e la realizzazione degli obiettivi previsti dalla strategia Europa 2020 e di quelli relativi alla biodiversità”.
In conclusione
Il Decreto ha suscitato molte discussioni ma avrà sul breve periodo un impatto limitato. In primo luogo perché richiederà altri 7 decreti attuativi e poi 20 provvedimenti di recepimento da parte delle Regioni, con ampi margini di autonomia; in secondo luogo perché, al di là delle dichiarazioni di principio, la maggior parte delle foreste italiane sono “fuori dal mercato” in quanto i costi di utilizzazione, allestimento e trasporto del legname sono superiori ai potenziali ricavi e purtroppo, o per fortuna, nessun decreto può cambiare questa situazione. Resta la considerazione che attualmente non valorizziamo tutte le potenzialità del nostro capitale naturale e questo comporta una serie di problemi di carattere ambientale, socio-economico ed etico. In accordo con la strategia forestale dell’Ue e con le strategie di mitigazione dei cambiamenti climatici, che vedono come prioritario l’uso del legno come risorsa rinnovabile, il criterio generale di riferimento della politica forestale nazionale non può più quindi essere, come nel passato, vietare o limitare fortemente le attività di prelievo per proteggere e ricostruire un patrimonio degradato. Il Decreto, senza radicali cambiamenti della normativa e senza modificare il regime di tutela, coglie l’invito dell’Ue e crea le condizioni affinché politiche regionali e locali possano, dove ci sono i presupposti, investire per attivare filiere produttive. Deve quindi essere letto in abbinamento alla strategia nazionale per le aree interne e al potenziale sviluppo di una green economy come unica alternativa sostenibile rispetto all’abbandono o allo sfruttamento turistico intensivo. Come ci ricorda e ci sollecita l’Ue, abbiamo la responsabilità di gestire questo capitale naturale in modo attivo, partecipato, attento a mantenerne il ruolo multifunzionale e consapevole delle conseguenze locali e globali “agendo localmente ma pensando globalmente”.
Renzo Motta, Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari (DISAFA), Università degli studi di Torino