Missione: Marmolada la nostra regina

Documento: La scommessa della Marmolada

Molti alpinisti, appassionati di montagna e osservatori in genere, non compresero lo spirito di iniziative ambientali a carattere provocatorio, come quella sul Monte Bianco del 16 agosto 1988. Non avevano riconosciuto il valore simbolico di quella dimostrazione e la qualificarono un’utopia. Mountain Wilderness non si ribellò a quella condanna, anzi ribadì che la provoca-zione ha sempre accenti utopici.

Quelle persone invece considerarono di buon occhio e di buon grado l’altra azione estiva del 1988, quella della Marmolada.

Dalla dirigenza di Mountain Wilderness questo era stato previsto: fu infatti volutamente approvato per la stessa estate un programma con due azioni diverse: una simbolica e di rottura provocatoria, l’altra più inserita nel benpensare comune. Nessuno infatti giudicò male la nostra iniziativa di ripulire la Marmolada.

Questo genere di azioni non era certo una novità: per anni e anni c’erano state iniziative varie (del CAI, dei boy-scout ecc.), nelle più disparate zone montuose: non eravamo i primi e non saremmo stati gli ultimi. Siamo però dell’opinione che ripulire le montagne non risolva il vero problema, a volte pensiamo perfino che la presenza degli spazzini delle Alpi incoraggi lo spargimento di pattume.

Le immondizie sono un sintomo, non una causa. A monte di esse c’è una cattiva utilizza-zione della montagna, un “uso” sempre più protervo e rapinato-re e sempre meno ricco d’Uomo e di Natura. Per la legge i responsabili di questo sono i frequentatori della montagna, gli operatori turistici e i gestori delle strutture: ma il vero responsabile è l’insieme di ciò che chiamiamo Cultura.

Le informazioni di Maurizio Giordani sullo stato miserando della Parete Sud e del Ghiacciaio della Marmolada si erano non solo rivelate tragicamente esatte: in alcuni casi il degrado che si venne poi a scoprire assomigliava ad un cancro a prima vista insospet-tabile. All’inizio, il luglio 1988, ci fu la raccolta lattine al Passo Ombretta.

Al Bivacco Dal Bianco 2727 m, con i volontari riempimmo 43 sacchi di barattoli: in vent’anni quel bivacco era diventato una pattumiera senza una vera utilità. Un foglietto dattiloscritto, appeso sull’interno della porta e firmato dall’allora presidente del Club Alpino Accademico Italiano, Ugo di Vallepiana, pregava “i Signori Alpinisti ed Escursionisti” di “gettare i propri rifiuti nel canalone ad ovest”! Naturalmente questo canalone, di scomodo accesso, era pulito: i rifiuti erano ad est, nel canaletto proprio sotto alla porta! In seguito facemmo una proposta, quella di spostare il bivacco ac-canto al Rifugio Falier, a mo’ di ricovero invernale. Ma non vi fu mai dato seguito in sede competente.

La colpa di quel degrado era unicamente degli anonimi visitatori, i cosiddetti appassionati di montagna: e nessuno potrà mai incolparli di niente. Lungo il sentiero tra il Rifugio Falier 2074 m e il Passo Ombretta 2702 m, in altre date, furono raccolti 40 sacchi. Sotto alla Parete Sud, a una quota variabile tra i 2600 e 2750 m, e precisamente nei pressi degli attacchi delle vie Gogna, Messner e Tempi Moderni, il 31 luglio ne riempimmo altri 60.

Qui la responsabilità, a giudicare dalla tipologia del barattolo, era da attribuire in buona parte ai resti della prima guerra mondiale e in minima parte agli arrampicatori. Il resto era dovuto alle discariche (solo recentemente impedite e poi risolte) della Capanna Punta Penìa, un piccolo ri-fugio sulla vetta della Marmolada 3343 m. Il materiale fu raccolto grazie solo ad una decina di volontari, per un totale effettivo di circa 25 giornate-uomo, con la coordinazione di Gianfranco Sperotto.

I 143 sacchi furono evacuati il 3 ottobre dello stesso anno con l’aiuto dell’eli-cottero dei VVFF di Trento. Ma, come tutti sapevano, l’inquinamento maggiore era attribuibile alle funivie. Sapevamo che per anni dalla stazione terminale (Stazione di Punta Rocca 3250 m) un’enorme quantità di materiale era stato getta-to nel vuoto dei 900 metri della Parete Sud. Ancora prima in L’Avventura Alpinismo, Reinhold Messner raccontava come nel 1967 egli fosse salito con due compagni per la via dell’Ideale, aperta da Armando Aste e Franco Solina nel 1964. Gli altoatesini fecero una variante finale che non era altro che lo scarico dell’ora smantellato Rifugio Dallago. Nello stesso punto, poco tempo dopo, fu costruita la Stazione Punta Rocca e in quel momento si ebbe la discarica di materiali da costruzione più alta delle Alpi. Nel 1982 Igor Koller, primo salitore della via del Pesce, scrisse che durante l’ascensione fu sfiorato da una “valanga”, composta da un tron-cone di tre metri e da altri materiali (Der Bergsteiger 9/1982). È del 1986 una foto di Giordani che mostra l’uscita della variante Messner completamente colma di rifiuti solidi ingombranti. Ma nel 1987, per via delle prime esperienze giudiziarie, la gestione delle funivie si affrettò a fare una sommaria pulizia, semplicemente gettando giù tutto ciò che ostruiva l’uscita. Ma non basta. Durante tutti quegli anni, sempre lungo la linea della via dell’Idea-le, si era creata una visibilissima striscia marrone, alta circa 800 metri e larga 10-15. Rifiuti organici? Anche, ma sopratutto liquidi oleosi per la manutenzione dei motori (siti appunto a monte dell’impianto, nella Stazione Punta Rocca). Ogni giorno avveniva uno scarico in parete di circa 150 litri di liquido, con partenza da un tubo ben visibile da chiunque. Il 23 luglio 1988, con Giordani, Rosanna Manfrini, Giusto Callegari, Paolo Leoni e Graziano Maffei, salimmo la via dell’Ideale con uscita Mariacher. Facemmo due docce al gasolio e altre sostanze e potemmo osservare, documentandolo, il getto quotidiano. Pochi giorni dopo Mountain Wilderness riuscì ad avere la col-laborazione della Guardia di Finanza: quindici uomini ripulirono integralmente la variante Messner, tramite una calata di 160 me-tri. Ma il getto di liquami ed oli esausti continuava quotidiano. Si era perciò cominciato ad affrontare il problema, ciò nono-stante eravamo ancora ben lontani da un’apparenza di dignità. Alla base della via dell’Ideale la discarica era ancora intatta: ci voleva altro che un pugno di giovani volontari per ripulire quel canaletto ghiaioso dalle sue ingombranti macerie. Serviva il lavoro di una squadra di operai per parecchi giorni e l’aiuto dell’elicottero. Mountain Wilderness aveva ripulito quanto era in suo potere e cioè la sporcizia di alpinisti ed escursionisti. Il resto avrebbe dovuto essere compiuto dai responsabili dell’inquinamento. Ma vediamo da vicino cosa emerse durante l’estate 1988, al di là del-la già nota discarica dalla Parete Sud. Ghiacciaio della Marmolada. Grazie all’abbondante documentazione fotografica dei mucchi di spazzatura rovesciati dai gatti delle nevi, e grazie alle calate nei crepacci che rivelarono quanto sconvolgente fosse il loro interno, Mountain Wilderness rivolse una precisa accusa contro chi, per il divertimento di pochi sciatori estivi e uno sbandierato ma dubbio vantaggio economico per la valle, contribuiva (ed ancora oggi lo fa) ad un deci-sivo e galoppante ritiro del ghiacciaio. Nella conca glaciale racchiusa tra la Marmolada di Rocca 3309 m e la Forcella Seràuta 2878 m ancora oggi si scia d’estate. La neve è martoriata quotidianamente da due gatti che la ribaltano, la impastano, la spruzzano: la pappa che ne risulta non può che scio-gliersi con celerità. I cristalli si trasformano molto più velocemente di quanto non accada se lasciati stare nel normale accumulo e riposo. I resti di skilift in disuso erano abbandonati in luogo e così pu-trelle, blocchi di cemento, ringhiere, tettoie. E accenniamo solo agli sbancamenti insensati fatti per ricavare piste sciistiche sempre più veloci e sempre più equalizzate. Grazie ad una denuncia di un ex-operaio delle funivie si era venuti a sapere della pratica, poi interrotta dai carabinieri, di gettare verso fine agosto di ogni anno tonnellate di strisce di polietilene espanso nei crepacci, in modo da poterli riempire più facilmente con la neve di riporto che i gatti prelevavano dai bacini di accumulo naturale (le riserve del ghiacciaio) e rendere possibile quindi la continuazione anche in settembre dello sci estivo. Per la verità, nelle nostre ricognizioni del 10 settembre 1988 e 11 settembre 1991, non trovammo traccia nei crepacci di quel materiale, che le funivie si procuravano in una discarica di Bolzano. Ne rinvenimmo solo qualche quintale, ancora chiuso nei sacconi neri di plastica, depositato a monte della galleria di collegamento tra la pista di sci e la Stazione Seràuta. Probabilmente il movimento dei ghiacci aveva completamente macerato il tenero materiale plastico a strisce grige. Vallone di Antermoia. Dalla Stazione intermedia Seràuta, durante la costruzione dell’impianto, vi fu uno spargimento di rifiuti edili lungo l’in-tero vallone (3 kmq) racchiuso tra Punta e Piz Seràuta. Il Vallone d’Antermoia era infatti letteralmente tappezzato di ri-fiuti: dove prima avrebbe potuto essere fatto un bellissimo sentiero, ricavandone una specie di museo bellico a cielo aperto, perché in una zona tra le più ricche di residui in quanto a più alta densità di combattimenti, allora si sarebbe potuto fare solo il “trekking delle discariche”. Dal self service della Stazione Seràuta colavano i liquami di sca-rico tramite un tubo di gomma di qualche decina di metri. Il tutto, non depurato e a dispetto dei regolamenti vigenti, da ormai 20 anni si spandeva nel vallone. Intere funi di acciaio, fino a cento metri di lunghezza, erano ab-bandonate nelle ghiaia e così, in gran quantità, fusti vuoti di combustibile, bombole di gas ed altro. Canalone sotto la Prima Stazione (Banc del Gigio). Un profondo colatoio nella roccia, visibile solo da Ciamp d’Arei vicino a Malga Ciapela e immediatamente sottostante la Prima Stazione (il Banc del Gigio 2311 m), era stato scelto dal-la Funivia come discarica occulta. Questo canalone, chiamato anch’esso «del Gigio», ha un dislivello di 276 metri ed è largo in genere dai due ai cinque metri. La sua esposizione è NNE. Situato sulla destra idrografica del Vallone d’Antermoia, è ubicato proprio alla fine di questo, poco prima dell’orlo del grande salto roccioso che divide appunto il Vallone d’Antermoia dalla Val d’Arei (carrozzabile Passo di Fedaia – Malga Ciapela). Ricordo che lo osservai da Ciamp d’Arei un pomeriggio, ed ebbi subito il sospetto di come fosse stato utilizzato. L’11 settembre 1988, assieme ad un gruppetto di volontari, iniziai a risalire questo canalone. Eravamo appena #3333CCuci dalla discesa del Vallone d’Antermoia, nauseati da tanta raccapricciante devastazione. Non sapevamo che il peggio dovevamo ancora incontrarlo. Il Canalone del Gigio alla sua base (posta a 2055 m) era un solo accumulo di macerie e rifiuti grossi, assieme a migliaia di lattine sparse. Per tutto il suo sviluppo era ingombro di solidi e rifiuti di ogni tipo, fino ad uno spessore di più di un metro. Vi fi-gurava pure una buona camionata di quel polietilene espanso che tanto era stato cercato, anche dai carabinieri, in precedenza. Giunti più o meno a metà del dislivello, giudicai troppo pericolosa la prosecuzione in quell’antro infernale: la nostra arrampicata su reti metalliche, lamiere ed altro rischiava di provocare una frana di rifiuti su di noi. Così decidemmo di scendere a corda doppia, non prima di aver documentato lo scempio. Qualche giorno dopo, il 14 settembre, tornammo, questa volta decisi a scendere il canalone dall’alto e con una serie di corde statiche. La squadra era composta da Reinhold Messner, Roland Losso, Giuseppe Miotti e da me: con noi scesero pure i giornalisti Leonardo Bizzaro e Marco Benedetti. La seconda visita confermò la prima: l’ingombro era totale, un’ininterrotta discarica presumibilmente di 290-300 metri di lunghezza, con forte pendenza e con qualche raro salto verticale. Per la sua pericolosità e difficile accessibilità, giudicai la bonifica di quel luogo la più grande impresa possibile (o forse impossibile) nel campo delle azioni ambientali in montagna. E fu in quell’occasione che giurai a me stesso che un giorno quel canalone sarebbe stato interamente ripulito. Intanto il clima era davvero diventato rovente. Una buona parte della popolazione valligiana ci era contro: mentre la sera del 14 settembre, quando, presente Messner, denunciammo in una sala di Canazei la situazione, l’accoglienza fu f#3333CCdina ma tollerante, la sera del giorno dopo, a Rocca Piétore, i carabinieri fecero fatica a proteggerci. Sostanzialmente, a Canazei pensavano che tutto ciò non fosse affare loro; a Rocca Piétore invece si sentivano danneggiati e temevano un contraccolpo delle presenze turistiche. Nell’ottobre 1988, a conclusione dell’operazione Marmolada, durante un processo per diffamazione intentato dalla gestione delle funivie al giornalista Giordano De Biasio e ad altri due suoi colleghi che si erano occupati del caso, i testimoni di Mountain Wilderness ac-cusarono i responsabili della Società Funivie Tofana Marmolada SpA di aver provocato lo scempio ventennale che ho appena finito di descrivere. L’Amministratore venne condannato a un miliardo di lire di multa (da spendere per la bonifica) e a 6 mesi di reclusione (con condizionale). Cessò lo scarico sulla Parete Sud e iniziò un lungo braccio di ferro tra le USSL (poi ASL) e gli esercizi di ristorazione degli impianti. Nel 2000 l’amministrazione trentina, definiti finalmente i contrasti territoriali con Belluno, realizzò finalmente un’accurata bonifica dell’intero ghiacciaio, con il giusto impiego di uomini e mezzi, senza badare a spese. Nel frattempo, nell’ambito di un programma di risanamento avviato da una rinnovata (e indubbiamente più avveduta) gestione delle funivie, nel 1999 e nel 2000 gli altri luoghi deturpati videro una prima revisione. Autori di queste operazioni furono alcuni operai delle funivie, coordinati da Leo Olivotto (ex direttore tecnico degli impianti) e da Attilio Bressan. Ma vi collaborarono anche dei volontari e perfino squadre del corpo degli Alpini. Furono così ripuliti la base della Parete Sud in corrispondenza dell’ex-discarica della via dell’Ideale e naturalmente fu affrontato il Vallone d’Antermoia. Vista la mole del materiale recuperato, una ventina di rotazioni di elicottero, il lavoro fu indubbiamente accurato, anche se sappiamo purtroppo bene che solo dopo un po’ di passaggi il terreno ghiaioso permetterà una pulizia completa. In più il Vallone d’Antermoia spesso e volentieri è invaso dalla neve residua dell’inverno e questo certo ha impedito una pulizia totale. Per esempio, nell’estate 2001, dopo una stagione invernale di abbondanti nevicate, non vi fu possibile alcuna azione di recupero, per gli spessi nevai che ricoprivano le ghiaie anche d’agosto e settembre. L’1 agosto 2001, Marco Preti, Mario Pinoli ed io, scendemmo ancora una volta nel Canalone del Gigio per fare un film per una possibile sponsorizzazione da parte della Luxottica, constatammo che il fondo del canale era invaso da decine di metri cubi di neve residua che avrebbe impedito qualunque asportazione di materiale sottostante. Inoltre, da alcuni mozziconi di sigarette, ci accorgemmo che qualcuno era sceso nel canale, non sappiamo se l’anno prima: probabilmente uomini del Soccorso Alpino. Questo voleva dire che i tempi erano maturi: forse avevo la possibilità di vincere la scommessa che avevo fatto con me stesso t#3333CCici anni prima. Era quello il momento di avviare la lunga e costosa operazione di bonifica del Canalone del Gigio. Quell’atto finale non sarebbe servito solo a dare lavoro agli specialisti: sarebbe stato un primo passo, un esempio sopratutto per altre strutture turi-stiche che, ben sappiamo, avevano fatto buona compagnia ai misfatti della funivia del-la Marmolada. Luca Grigolli (della Tequila ProAd) doveva darsi da fare e convincere la Luxottica che quella era davvero una splendida iniziativa. Il 21 settembre, ad Agordo, ci fu la presentazione ufficiale del progetto. Cominciava qui anche l’importante lavoro di Mario Pinoli (di Montana srl), un’accurata tessitura di relazioni pubbliche e private che ci avrebbe permesso di mandare avanti l’operazione: infatti i rapporti che intercorrevano tra la gestione delle funivie, il comune di Rocca Piétore, la provincia, Mountain Wilderness, il CAI, il Soccorso Alpino e tutti coloro che avevano lavorato nel 1999 e 2000 erano così delicati da rischiare che il nostro improvviso inserimento facesse saltare in aria le buone volontà di tutti. Solo Mario “Richelieu” Pinoli poteva garantire il successo nella mediazione.

La bonifica del Canalone del Gigio

A fine giugno 2002 volevo sapere quanta neve residua era al fondo del canalone. La bonifica era stata programmata di lì a qualche giorno e non volevo andare inutilmente. Con i binocoli osservai la base del canale dal solito Ciamp d’Arei e vidi che il nevaietto era proprio piccolo e ben distaccato dalle pareti rocciose del canalone. Quindi tutto andava avanti come previsto. La Luxottica ci aveva finanziato una quindicina di giorni di lavoro per quattro persone. Secondo i miei calcoli sarebbe bastato. Assieme a Lorenzo Merlo, guida alpina di Milano, e a Pascal van Duin, guida alpina di Mello in Valtellina, avevamo passato parecchio tempo a pensare come agire. Calarsi in quel posto comportava armonia, idee chiare. Diversamente ogni momento sarebbe stato buono per alzare i rischi d’imprevisto. Si poteva ipotizzare un intervento pesante, con tanto di cavo d’acciaio. Ma alla fine prevalse l’idea di scendere leggeri, anche considerato che il canalone non dava spazio a tante persone contemporaneamente. Sapevamo che già il semplice movimento di un singolo metteva a rischio l’incolumità dei sottostanti, figuriamoci un singolo che menava picconate. E questo sia a causa dell’instabilità dei rifiuti, sia a causa della roccia talvolta friabile e della ghiaia onnipresente sul fondo. Le misure del canalone, da me prese con il GPS nei primi giorni, confermavano una prudenza davvero obbligatoria. La base del Canalone del Gigio era situata a 2055 m, 46° 26′ 137 N di latitudine e 11° 53′ 942 E di longitudine; l’inizio della discesa, nei pressi della Stazione del Banc del Gigio, è situato a 2331 m, a 46° 26′ 089 N di latitudine e 11° 53′ 860 E di longitudine. Il dislivello è quindi di 276 metri, lo sviluppo esatto 298 m, con una pendenza media di 68°. Il 6 luglio 2002 arriviamo a Malga Ciapela: con noi è il quarto della squadra, il geologo e alpinista Luca De Franco, già mio compagno nella bonifica del Ghiacciaio delle Platigliole allo Stélvio nel 2001. Siamo ancora in tempo per prendere contatto con il direttore tecnico delle funivie, Luciano Sorarù, e con il sindaco di Rocca Piétore, Maurizio De Cassan. Il clima, rispetto al 1988, è davvero cambiato. Entrambi ci confermano il sostegno totale all’iniziativa e, come già d’accordo nei mesi precedenti, avremo dalle funivie aiuti tecnici e passaggi gratuiti. Il giorno dopo, mentre Luca continua le prese di contatto, soprattutto per garantire un corretto smaltimenti dei rifiuti che andremo a raccogliere, Pascal, Lorenzo ed io saliamo in funivia al Banc per una prima ricognizione. Per loro il canale è una totale novità e vorrei che fossimo in tre a controllare la tattica della bonifica. La discesa si svolge senza incidenti, sfruttando e rinforzando gli ancoraggi delle otto corde doppie necessarie. Per me è la quarta volta, ma i due miei compagni sono allibiti di fronte al compito che ci attende: ma, senza ulteriori commenti, raggiungiamo la base del canale. Qui passiamo tre ore ad agg#3333CCire a picconate e a colpi di pala il nevaio che ostruisce il fondo: cerchiamo di provocare il distacco di blocchi squadrati di neve dura, in modo da poterli spingere e farli rotolare il più in basso possibile sul ghiaione, dove il sole li scioglierà. Alla fine, con la schiena rotta, scendiamo per circa tre quarti d’ora il sentierino di costruzione militare, a volte decisamente esposto, che collega il fondo del Vallone d’Antermoia con il Ciamp d’Arei e Malga Ciapela 1449 m. La giornata è finita. L’8 luglio ci dividiamo: dalla stazione della funivia Luca ed io scendiamo per un sentierino aereo, ripido e a volte un po’ invaso dai baranci, tracciato circa 35 anni fa in occasione della costruzione degli impianti. Anche questo si chiama “del Banc del Gigio” e bisogna stare attenti a percorrerlo, non tanto nel breve tratto attrezzato con un cavo metallico, quanto sulle ripidissime pale erbose. Carichi come somari, la traccia ci porta una cinquantina di metri sotto ai baranceti che sono ai piedi del conoide ghiaioso alla base del Canalone del Gigio; qui si arriva perciò con un’ultima salita, per cominciare subito una raccolta del materiale sparso sul ghiaione. Intanto Pascal e Lorenzo salgono in funivia al Banc (Prima Stazione) per incominciare la pulizia di grosso della prima sezione. Ci hanno concesso l’uso di una stanzetta in cui scegliere di giorno in giorno i materiali che abbiamo depositato lì. Abbiamo le radio, ma dopo un po’ rinunciamo a chiamarci continuamente. Presto infatti, noi che siamo alla base, impariamo a capire, dai rumori terrificanti che fa, di che tipo è il materiale che precipita; per prevedere i rimbalzi e i tempi di atterraggio nei nostri paraggi. Specialmente se si è proprio nel fondo del canale, là dove la neve residua si sta sciogliendo, si è davvero esposti, come al tiro al bersaglio. Se si è invece un po’ più distanti, allora il rischio è di essere colpiti da certe lamiere di zinco che addirittura sembrano volare mentre sfuggono alla prigionia del canalone. Lorenzo e Pascal si stanno infatti dedicando ai grossi rifiuti, tralasciando la prima parte in cui enormi quantità di plastica, vetro e lattine sono praticamente sepolte da una coltre vegetale che li ha ricoperti. Nel frattempo, data l’enorme quantità di legno presente, decidiamo di farne delle cataste e di appiccarvi fuoco. Così la neve si scioglierà ancora più in fretta. Un fumo denso si alza e s’infila ovviamente nel canalone, che fa da camino. Uno spettacolo davvero infernale. Alle 17 smettiamo di lavorare e scendiamo tutti insieme a Malga Ciapela, sempre per il solito sentierino di guerra. Il giorno dopo ci sono poche varianti al programma. Continua il grande lavoro di Lorenzo e Pascal, dissodare e spingere verso il basso tonnellate di materiale, che in genere scende veloce per un tratto per poi arenarsi una decina di metri sotto al primo mucchio che fa da diga. Il tutto insieme alla ghiaia. Bisogna lavorare appesi alle corde, una alla volta. Poi si scende un poco, si scava, si risale e si ricomincia da capo. Ogni tanto riescono a buttare giù qualcosa di grosso e questo, nella sua caduta, riesce a trascinare con sé altro materiale. In genere il rumore di fondo è una scala musicale con echi provocata dai rimbalzi continuati di decine di barattoli. Al fondo, noi siamo con le orecchie tese, e ci spacchiamo la schiena per radunare, a portata di elicottero, il materiale raccolto nei sacchi. Il rogo era continuato per tutta la notte, non abbiamo difficoltà a rifornirlo continuamente di assi marce e gelate. Il fumo questa volta arriva a dare fastidio a Lorenzo e Pascal, che più volte ci pregano per radio di smettere. Ma ormai non possiamo più spegnere nulla, bisogna solo attendere che il legname si consumi. A metà pomeriggio, improvvisamente per radio Lorenzo ci comunica che Pascal si è fatto male, devono scendere subito. Sembra però che ce la faccia da solo. Con ansia li aspettiamo, per poi vedere un sanguinante taglio proprio sopra l’occhio, già medicato alla meglio e bendato. Proprio a metà canale, nello spingere un lungo tubo idraulico per far leva su un enorme “tappo” di ferri rugginosi, putrelle, rotaie, lamiere varie e cavi d’acciaio di variegata foggia e lunghezza, c’è una coordinazione mancata tra Lorenzo e Pascal, combinata con la “giusta” ondulazione della parte di tubo libero: ed ecco che il ritorno elastico del tubo lo va a colpire con violenza. Pascal si accascia sul fondo di detriti putridi, la corda lo tiene. Lui si tiene la testa. Qualche secondo di paura per Lorenzo che non lo vede reagire. Poi, seppur molto dolorante e “stonato”, Pascal si riprende. I due iniziano a scendere. La giornata per oggi… è andata bene. Non sarà una cosa grave, ma ci rende tutti pensierosi. La discesa a Malga Ciapela è silenziosa, questa sera. Siamo tutti stanchi, scoraggiati dalla quantità di lavoro che ancora ci attende. Il tempo per il momento tiene, ma se si mettesse a piovere? La sera in albergo cerchiamo di non pensarci: e nel frattempo incontriamo finalmente il forte Attilio Bressan, nei giorni prima non disponibile. Da domani sarà con noi a lavorare. Bressan, ai tempi di Mountain Wilderness 1988, dopo una prima collaborazione aveva pesantemente litigato col coordinatore Sperotto, per motivi che non ho mai avuto modo di chiarire del tutto. E in ogni caso era ovvio che a quel tempo noi fossimo visti come dei veri e propri intrusi rompicoglioni. Poi, nel 1999 e nel 2000, Bressan si era dato molto da fare per realizzare le bonifiche promosse dalla gestione delle funivie cui ho accennato prima. Attilio si sarebbe rivelato una vera forza della natura: nonostante l’età non più così verde non smetteva mai di lavorare, con uno spirito pratico ed un’esperienza davvero ammirevoli. 10 luglio. Nel canalone stavolta scendiamo in tre, anche se una persona in più fa aumentare il rischio. La mia presenza infatti è necessaria per documentare fotograficamente la bonifica. Pascal è tranquillo, ma non ha passato una buona notte. Il volto e la ferita gli dolgono ma non fa parola. Fa f#3333CCdo, dalle pareti sgocciola acqua addosso a quelli che stanno fermi in piedi e in posizione scomoda, chi lavora invece suda come una bestia. Soprattutto difficile da sopportare è la sensazione di non vedere progressi: è vero che ogni tanto qualcosa va giù fino in fondo, con un rumore così forte e intenso da essere consolante, ma in genere il materiale scorre per pochi metri per poi ammucchiarsi miseramente in cataste sempre più grandi, sempre più faticose da sgombrare. Ore e ore per sbrogliare funi di metallo che legano il resto in un ammasso senza risoluzione, ore e ore per dissodare una lamiera: e pochi metri più sotto occorrerà fare le stesse cose sulle stesse funi e sulle stesse lamiere. Dopo l’episodio di Pascal, pur avendo spessi guanti da lavoro, abbiamo paura ugualmente di tagliarci, oppure di ferirci una caviglia quando si fa leva per estrarre qualcosa. Ci sembra una condanna, eppure l’abbiamo scelta noi. Alla base intanto vediamo agitarsi Attilio e Luca. Questa mattina sono scesi veramente appesantiti per il sentierino del Banc, perché hanno portato con loro due reti da elicottero a testa, in modo da poter disporre finalmente i carichi per l’elicottero.I rifiuti sono sparsi non solo sul ghiaione, ma fino a 200 metri distante nei baranci, ormai semiseppelliti dalla vegetazione. Occorre setacciare la zona, reperire il materiale, dissodarlo e trascinarlo ai carichi previsti. La variante serale è che siamo in cinque a scendere il sentierino, ma siamo così stanchi da non fare quasi neppure una battuta di spirito. Solo la birra al Bar del Gigio ci tira su di morale. Il giorno dopo, stessa storia. Scendo ancora nel canalone, perché voglio aiutarli un poco e fare altre foto che il giorno prima non avevo pensato di fare. L’osso più duro di tutti si rivela essere un tratto più o meno a metà: qui il canale è privo di salti verticali, il materiale si è ammassato in modo preoccupante, lo sgombero è lentissimo. Due lunghe curve di rotaia, circa 7-8 metri sono una non metaforica spina nei fianchi del canalone: non scivolano giù che pochi metri e trattengono molto bene ogni detrito che le incontra. Più sotto, in corrispondenza di un anfratto, il giorno prima avevamo lasciato del materiale da lavoro (sacconi, corde, mazzette, chiodi, spezzoni, piccone, pala, seghetto, leverino): facciamo fatica a trovarne alcuni, perché nel frattempo il livello di detriti è salito di più di un metro, ed è stato tutto seppellito! Appena ho finito il mio compito scendo velocemente da Attilio e Luca, per aiutarli a preparare i carichi. Le prime rotazioni d’elicottero sono infatti previste per domani. Ormai la caduta di materiale è davvero pericolosa per chi sta sotto. Si può lavorare un minuto, poi scappare per il minuto dopo. Meglio perciò essere in tre. Il legno accatastato intanto ha assunto proporzioni gigantesche, quindi, approfittando di un po’ di vento, non resisto alla tentazione di appiccare ancora fuoco… Questa volta il fumo si disperde e non dà fastidio ai poveretti del canalone. A fine pomeriggio ci ritroviamo tutti al Bar del Gigio, dove, più allegri del solito, sperimentiamo le birre con variante all’anice. Al terzo giro tutti e cinque siamo assolutamente alticci, e ci ripromettiamo di riprendere altre volte questa splendida bibita, ringraziando Attilio per questo nuovo suggerimento della tradizione valligiana. 12 luglio, ancora bel tempo, siamo davvero fortunati. In compenso Lorenzo e Pascal cominciano a dare segni di qualche stanchezza. Decido di scendere ancora con loro, in modo da alternarci al lavoro più frequentemente. La pulizia è ormai senza storia, anche se ogni lamiera, ogni trave, ogni fune ha la sua storia di lotte, di bestemmie. La sfida è per ogni oggetto diversa. In tre riusciamo a spedire nell’abisso una quantità di roba davvero confortante: i pezzi grossi sono rari e con la caduta di solo materiale piccolo, siamo sicuri che sotto possono continuare a lavorare. Oggi ad aiutarli è con loro anche Leo Olivotto. Quando arriva l’elicottero, sono sotto anch’io. Deposita a terra il tecnico con una manovra a dir poco ardita, in pochi minuti ritorna e incomincia la corvée. Dopo mezz’ora è tutto finito. Non ci sembra reale che una prima parte di lavoro si sia davvero realizzata. Mi precipito in basso per il sentiero militare per poter documentare l’ammasso recuperato e lasciato dall’elicottero al Passo Fedaia dopo una decina di rotazioni, prima che il camion dello smaltimento, munito di gru, porti via tutto. Ed è a cuore più leggero che ancora una volta ci ritroviamo assieme al bar. 13 luglio. Scendo con Luca con altre reti per il sentierino del Banc, ma poi risalgo il canalone usando la corda fissa che mi hanno lanciato Pascal e Lorenzo dall’alto. Lavoriamo ancora in tre, ormai con molta coordinazione. Ci siamo davvero organizzati ed è difficile che si verifichino lunghi tempi morti per qualcuno dei tre. C’è sempre qualche manovra che si può fare assieme ad un’altra, perciò non stiamo mai fermi. E il lavoro comincia a vedersi. La metà superiore del canale si può definire pulita, i frammenti di plastica e i barattoli di latta più piccoli ancora seppelliti e invisibili nella ghiaia verranno pian piano espulsi negli anni, la natura farà ancora una volta il suo dovere. Perciò è nella metà inferiore che ci concentriamo, gasati dall’aver visto la luce alla fine del tunnel. Sotto, Luca è da solo, Attilio oggi non ha potuto venire. 14 luglio, domenica. Il tempo è assai minaccioso. Faccio un salto veloce al Rifugio Castiglioni al Lago di Fedaia, da dove so che stanno per partire i ragazzi di Mountain Wilderness: la loro meta è la vetta a piedi da lì, per sottolineare ancora una volta che il problema della Marmolada e della sua gestione generale è ancora ben vivo e occorre vigilare perché non si realizzino progetti che nulla hanno a che fare con l’attenzione all’ambiente e con il turismo sostenibile. Alle 9 sono già in funivia per raggiungere i miei compagni. Luca oggi scende con Lorenzo e Pascal, in modo da fare anche lui il suo “giro turistico”, almeno una volta. Attilio ed io lo incontreremo già alle 10, alla base del canalone, pronto a ricominciare. Per fortuna non piove: fa f#3333CCdo, ma il vento è riuscito a spazzare via il pericolo d’acqua. Anche oggi possiamo lavorare tutto il giorno e concluderlo degnamente al solito bar. 15 luglio. Torniamo a rivedere l’arcata sopraccigliare di Pascal, priva di benda. Piuttosto che scendere ancora una volta per il “maledetto” sentierino del Banc, Luca preferisce scendere carico di reti per il canalone. E mentre Pascal e Lorenzo riprendono la loro odissea, Attilio ed io ci dedichiamo ad un altro compito, la pulizia di fino della parte alta. Come ho già detto in precedenza l’inizio del canale è caratterizzato da un ripido pendio erboso, inframmezzato da un risalto. Qui, negli anni, i sacchi di spazzatura si sono trasformati in “cotica”. Non vogliamo ovviamente rovinare il “maquillage” della natura, soltanto asportare ciò che di visibile c’è ancora. Qui stiamo parlando di tonnellate di sacchi neri sui quali è cresciuta l’erba. Poco sotto il primo salto verticale, un vero e proprio “pozzo” speleologico, l’antro si dischiude a campana e su una cengia laterale si sono depositati quintali di roba assai minuta. È lì che scendo, in verticale dal piazzale di manovra sito proprio sotto alla Stazione. Io raccolgo il materiale, Attilio lo tira su. Dobbiamo stare attenti, perché sotto di me, ma a portata di sassi, stanno lavorando Lorenzo e Pascal. Allorché ho finito, risalgo a jumar la campana e il pozzo. E invece di andare al bar, Attilio ed io scendiamo ancora per il sentierino del Banc, per aiutare Luca a fare altri carichi. Alla fine del pomeriggio comincia a piovere, scendiamo tutti sotto l’acqua. So che le previsioni per il domani non sono confortanti. 16 luglio. Alla mattina, grande fermento alle funivie, per la visita di ben due vescovi (Belluno e Trento): c’è anche tanta gente in più del solito. Però sta per piovere, saliamo ugualmente. Lorenzo e Pascal, coraggiosi, iniziano la discesa nel canalone: di per sé già poco attraente, un buco senza ombre da immaginare oggi con un temporale di acqua, sassi e fulmini. Ma alla fine tutto è inutile e devono scendere veloci alla base, bagnati fradici, e da lì a valle. Anche per noi, e per il nostro previsto lavoro di fino, nulla da fare. Ci ritroviamo tutti a visitare gli interessanti impianti della centrale elettrica di Malga Ciapela. E per oggi si chiude lì. 17 luglio. Il tempo ci dà tregua. Luca, Attilio ed io siamo ben decisi a bonificare il famoso prato iniziale; Lorenzo e Pascal scendono per l’undicesima volta nel canalone. Approfittando di una piccola teleferica di servizio della funivia, Attilio si piazza proprio sulla verticale del prato, mentre Luca ed io gli mandiamo su una ventina di sacchi della spazzatura belli carichi: sembra facile a dirsi, in realtà è solo con la forza delle bestemmie che i sacconi riescono a disincastrarsi dagli intoppi che incontrano ogni due o tre metri. Impieghiamo tutta la mattina, e alla fine non siamo così soddisfatti. Più si scava, più materiale appare. Ci convinciamo che sarebbe controproducente disfare un lavoro che la natura così pazientemente ha fatto. E così, dopo aver racimolato solo ciò che era ancora visibile, abbandoniamo l’ambizioso progetto di estirpazione totale del bubbone. Mentre siamo riuniti sul piazzaletto di servizio, dal basso la ricetrasmittente ci segnala un altro incidente. Nel gracchiare della radio, appare evidente che questa volta è più serio. Lorenzo è stato colpito ad una mano da un sasso. Pascal lo medica, poi, dopo aver srotolato la fissa per la discesa, lo cala fino alla base. Intanto scendo anch’io nel canalone, per fare da secondo a Pascal e continuare a lavorare. Attilio scende il sentierino del Banc per operare alla base e infine Luca scende in funivia per andare incontro a Lorenzo e portarlo in ospedale. Ci ritroviamo tutti alla sera, Lorenzo sta bene, gli hanno solo dato qualche punto. Ma è sicuro che domani non potrà scendere nel canalone, perché è prevedibile una mano gonfia come un pallone. 18 luglio. Le bizze del tempo ci hanno consigliato di anticipare di un giorno l’arrivo dell’elicottero per terminare il lavoro. Lorenzo ha passato una notte d’inferno, ma scenderà comunque per il sentierino del Banc assieme a Luca, Leo e Attilio, per dare loro una mano (nel senso letterale della parola). Io scendo il canalone con Pascal, per dare la botta definitiva: sappiamo infatti che sarà l’ultima volta. Deve esserlo. C’impegnamo infatti al massimo. Quando arriviamo al luogo dell’incidente di ieri, è davvero impressionante. In mezzo a grandi macchie di sangue, troneggia il guanto giallo da lavoro abbandonato lì, tolto dalla mano colpita e anch’esso insanguinato. Mi domando se quello che stiamo facendo ha ancora un senso. Poi riprendiamo il lavoro, con un accanimento che ha dell’insensato. Dopo anni e anni io sto vedendo la fine di quest’avventura della volontà, Pascal ha deciso di farla finita una volta per tutte. La sua rabbia, dopo questi giorni di follia, è pari alla mia. Non c’è più un movimento che non facciamo senza un mugolio, senza stringere i denti e un’imprecazione a mezza voce. Sotto il lavoro è altrettanto febbrile, le due squadre sono assai vicine: praticamente noi stiamo lavorando a non più di 40 metri da loro, è facile capirsi e non utilizziamo neanche le radio ricetrasmittenti. Alla fine siamo tutti al fondo, cercando di trascinare un po’ più all’aperto il mucchione di materiale, per fare gli ultimi carichi. L’elicottero arriva sul tardi ma svolge il suo lavoro egregiamente. C’è perfino il sole, io sono felice, è davvero finita. Ci concediamo perfino una rotazione solo per il nostro ritorno, per ritrovarci tutti dopo pochi minuti al bar del Passo di Fedaia. Festeggiamo. Anche Leo Olivotto, l’ex-direttore degli impianti, è contento. Mi sembra si sia tolto un peso dal cuore. Girano le “ombre” di vino, è un momento davvero magico in cui sembra che il mondo cittadino e quello valligiano possano essere la stessa cosa gioiosa. Per il domani è prevista un’ultima capatina di Luca e Pascal nel canalone, per il recupero del materiale tecnico, cioè corde, chiodi, cordini, sacchi: ma già da stasera sappiamo che tutto è finito. Anche se alla base rimane da appiccare il fuoco all’ultima catasta di legname, un compito che ho affidato ad Attilio e che lui svolgerà appena possibile.

Conclusione

I numeri finali sono, con buona approssimazione, i seguenti. Sono stati raccolti 13.225 kg di materiale, di cui 50 di lattine di alluminio, 500 di barattoli, 3.990 di lamiere di zinco, 200 di tubi di fogna, 225 di plastica, 10 di cavi elettrici, 200 di tubi di zinco, 8.050 di ferro. Sono stati inoltre dati alle fiamme 24.000 kg circa di legname altrimenti inutilizzabile. Queste cifre non rendono la minima giustizia a quello che è stato il lavoro necessario, prima alla denuncia, poi alla ricerca sponsor, poi alla bonifica. Se io dovessi trarre la mia soddisfazione solo dalle cifre, non sarei per nulla contento. Ciò che invece mi fa camminare a mezzo metro da terra è l’aver incontrato uno spirito di gruppo, una voglia di fare come raramente mi era capitato, neppure nelle spedizioni extraeuropee. L’aver fatto amicizia con Attilio è stata una delle cose più belle in tanti anni di montagna. Certo, le cose bisogna farle, realizzarle. Questo vuol dire un sogno di meno e una certezza in più. Per qualche motivo che ignoro, la Luxottica non ha voluto fare nulla per “comunicare” l’evento: si è limitata a mantenere la sua promessa, senza volere nulla in cambio. Ma anche codesta è una questione di “stile”.

Alessandro Gogna