Senza l’uomo, la montagna muore?
In occasione della Giornata Internazionale della Montagna, che si celebra ogni anno l’11 dicembre, alcune riflessioni sulla montagna che – grazie all’uomo pastore, agricoltore che l’ha vissuta e plasmata per millenni – è diventata un paesaggio accettabile. Ma in verità, senza l’uomo la montagna, quella delle cime, starebbe benissimo. Caso mai, sarebbe l’uomo a soffrirne la mancanza. Ed è per questo che occorre ridare alla montagna delle cime un valore.
Di Luca Giunti e Toni Farina.
Senza l’uomo, la montagna muore?
Tutte le montagne del mondo si stanno sgretolando. In senso geologico: l’erosione agisce incessantemente e mette a disposizione della forza di gravità pietre sempre nuove che rotolano in basso. In senso climatico: l’aumento delle temperature riduce i ghiacciai, abbassa le vette e fonde il permafrost che da millenni incolla insieme strati di rocce diverse, liberandole alla caduta.
Non basta a contrastare il fenomeno la pressione delle placche continentali, che non smette mai di spingere, né il sollevamento dei continenti, ininterrotto dalla fine dell’ultima glaciazione. Sono troppo lenti rispetto alla velocità della demolizione.
Soprattutto, le montagne si sono livellate nella nostra testa e nei nostri comportamenti. Il mondo moderno fa di tutto per eliminarle, dal punto di vista fisico e culturale. Gallerie ferroviarie e stradali le traforano di continuo, per superarle alla base. Skilift ed elicotteri le risalgono usando energia fossile anziché quella di uomini e animali addomesticati. Reti elettriche e informatiche annullano i dislivelli e collegano all’istante luoghi isolati fino a vent’anni fa.
Perché tutto questo? Perché la montagna ci sbatte in faccia attributi che la nostra specie non vuole vedere, o non vuole più vedere.
La montagna è in salita. Per definizione
Farà sorridere, ma è basilare. Infatti, escludendo gli impianti di risalita e i mezzi motorizzati, in montagna si va ancora a piedi. Cioè un’esperienza mai praticata da molti ragazzi e qualche adulto. Intendendo non il passeggiare per strada, ma il camminare per qualche ora senza asfalto e con un certo peso nello zaino. Chi accompagna di frequente persone sui sentieri montani – per quanto facili, larghi e ben tracciati – si preoccupa vedendo quanti inciampano, non hanno ritmo né fiato, si dichiarano “morti di fatica” dopo mezz’ora di cammino e dopo due ore hanno vesciche mostruose ai piedi.
La ragione è nota: siamo sedentari e pigri, i nostri ragazzi praticano molti sport ma tutti strutturati e su fondi assolutamente perfetti. Sono abituati ad avere tutto subito e comodamente, per cui non concepiscono una sana fatica.
Però la scuola insegna loro che la più grande conquista della nostra specie è stata la postura eretta; studiano le imprese dei grandi esploratori e le conquiste degli eserciti antichi, tutti rigorosamente appiedati (l’Anabasi, Ciro il Grande, l’Impero Romano, Annibale, Gengis Kahn, Attila, le Crociate, Marco Polo, Cortéz, il Far West: hanno usato qualche nave e un po’ di cavalli, ma la maggior parte dei trasferimenti – centinaia di chilometri – li hanno fatti camminando. D’altronde, come è nata la più famosa gara delle Olimpiadi? ); e magari, durante una ricerca, scoprono che i loro nonni compivano a piedi distanze oggi impossibili, anche solo per frequentare la loro stessa scuola.
La montagna ci impone il silenzio
Poco più di mezzo secolo fa l’aspetto delle montagne era diverso. Molte comunità stanziali o stagionali ci vivevano, coltivavano e allevavano bestiame. C’erano meno boschi, più prati e più canali irrigui. I sentieri utilizzati oggi dagli escursionisti collegavano le borgate, i campi, gli alpeggi e i fondovalle. I muretti a secco che ancora resistono alla gravità sono monumenti al lavoro e alla fatica.
La montagna ci impone il silenzio. Merce rara in città. Sappiamo che il rumore continuo causa importanti disturbi e posso affermare che dà assuefazione: spesso occorrono diverse ore di disintossicazione per riuscire a posare cuffie e smartphone, e a non urlare sempre, in modo da apprezzare la quiete. Che non è mai assoluta, ma sempre colma di fruscii, sospiri, schiocchi, versi e voci, e suoni sempre diversi e mai finiti, ma tutti naturali.
Insieme al silenzio va considerato lo spazio, o meglio, gli spazi. Abbiamo perso anche quelli, nella modernità. Ricerche mediche hanno correlato l’aumento dei difetti visivi nei giovani al fatto di non avere più soggetti lontani da osservare, chiusi come siamo tra pareti e palazzi. Le montagne ci costringono ad alzare lo sguardo, salendo, e allargarlo, in cima. Così ci ricordano quanto siamo piccoli e quanta poca conoscenza abbiamo del mondo. Questo ci disturba: meglio appiattirle – e appiattirci.
La montagna e le stelle
Poi bisogna ricordare il buio. E già, perché come denunciano sempre più afflitti astronomi e astrofili, illuminiamo sempre di più e sempre peggio. Moltissimi umani non possono più vedere abitualmente la Via Lattea. La montagna, non ancora del tutto inquinata, permette di godere del cielo stellato, con tutto il suo corredo fascinoso di emozioni, curiosità e mistero. Non si tratta di scrupoli di scienziati un po’ fissati o delle manie di romantici nullafacenti. Da quando la nostra specie ha sviluppato una coscienza – forse 100.000 anni – è sempre bastato alzare gli occhi per vedere il cielo, le stelle e i pianeti. Questa cupola nera ha accompagnato la nostra evoluzione, ed è stata fonte di ispirazione per sapienti ed artisti. Le grandi esplorazioni, dai Fenici a Colombo, l’hanno usata per orientarsi; la tradizione cristiana vi ha trovato il segno della nascita di Gesù; Galileo, Keplero e Copernico vi hanno posto le basi della scienza moderna; Kant vedeva in essa un principio di ragione e di morale universale; poeti e innamorati di ogni epoca vi hanno cercato risposte alle domande assolute dell’umanità. Questo spettacolo gratuito accumunava tutti: re e contadini, naviganti e pastori, monaci e briganti, industriali e impiegati, autisti e operai, minatori e fornai. Tutti tornando a casa la sera potevano liberamente gettare uno sguardo – e quindi un pensiero – sull’infinito. Soltanto negli ultimi 50 anni – un battito di ciglia della nostra storia – abbiamo perso gran parte di questa possibilità. Gran parte delle montagne sono ancora buie, ma questo ci spaventa. Meglio illuminarle (sci notturno, fari, lampioni, telecamere) o evitarle. Non sia mai che ci venga da pensare!
Infine, le montagne restano un rifugio per disperati. Non a caso, da secoli è impossibile sottomettere gli Afghani, perché a ogni guerra si nascondono sulle cime che conoscono meglio dei loro nemici, nonostante siano inferiori in tecnologia. Non a caso, la montagna è stata il luogo di elezione della resistenza partigiana. Non a caso, i valichi alpini hanno fatto passare emigranti, contrabbandieri, perseguitati e clandestini – e continuano a farlo tuttora. Tutta gente che ha bisogno di non farsi vedere dalle autorità costituite.
Fatica, Silenzio, Grandi Spazi, Buio, Essenzialità, Ribellione congenita.
Tutto questo e molto altro offrono le montagne. Chissà per quanto tempo ancora?
Montagne, per quanto tempo ancora? Dipende da noi
Fino agli 80 del millennio scorso al Devero si andava a piedi. Una bella mulattiera saliva da Goglio all’altipiano. Con percorso logico, dettato da sapienza montanara, s’inerpicava sulle balze tra coraggiosi larici in compagnia del torrente. Dal fondovalle quell’altipiano poggiato sopra alle bastionate di granito ossolano non era neppure immaginabile e solo una volta usciti sulla piana ci si rendeva conto degli orizzonti. Il Grande Est, il Grande Ovest.
L’ora e mezza di cammino da Goglio dava senso e valore al quel cambiamento di stato e di prospettiva. E per chi lassù lavorava c’era una funivia di servizio, sempre attiva, funzionante, anche con quelle nevicate di metri che talvolta coprono (coprivano) quelle montagne al confine con la Svizzera. Poi è arrivata la strada.
Una violenza nel granito. Oggi c’è chi ripensa a quella scelta frettolosa, sostenendo che sarebbe stato meglio adattare la vecchia funivia e, allo stesso tempo, incentivare per i turisti la salita a piedi. Partendo magari da Baceno, sulle orme dei Romani lungo la storica Via dell’Arbola. Oggi però, al contrario, si ipotizza un’altra funivia che, annullando tempo e spazio, sorvoli la Val Bondolero per collegare direttamente Devero a San Domenico di Varzo, con attestamento sul Monte Cazzola. “Avviciniamo le montagne”, è lo slogan.
Quell’alto colle nel Gran Paradiso
La cima del Gran Paradiso si vede dalle strade di Torino. Nelle giornate limpide riempie l’orizzonte di via Antonio Cecchi, attira l’occhio dei passanti sul ponte della Dora, verso i Giardini Reali. E d’altronde furono proprio i “reali” a spingersi nell’800 tra quelle giogaie, in cerca di wilderness e di svago venatorio. Erano giorni di cammino dai borghi di fondovalle, cortigiani e paesani al seguito.
Per arrivare su quell’alto colle fecero costruire una mulattiera (reale) che da Ceresole (Reale) s’inerpicava con percorso logico, dettato da sapienza montanara, tra le balze dell’alta Valle dell’Orco. E si deve a quella voglia di wilderness e di svago venatorio la nascita, 70 anni più tardi, del primo parco naturale italiano.
Quell’alto colle ha il nome di “Nivolet”, o “Nivolé”, per via delle nuvole che sovente stazionano lassù, a 2612 metri, tra Canavese e Vallée, tra Valle dell’Orco e Valsavaranche. Nel Parco nazionale Gran Paradiso. Lontano dalla pianura e dalla città. Poi è arrivata la strada.
La realizzazione risale agli anni ’60 del secolo scorso, quando il futuro viaggiava su quattro ruote azionate da un motore a scoppio. Non c’era futuro possibile senz’auto, anche nel cuore di un parco nazionale. Anzi, era proprio la strada il vettore fondamentale per far conoscere il parco alle genti della pianura. Per avvicinare le genti della pianura alla montagna. E fu così che lo straordinario altipiano al cospetto delle cime del Gran Paradiso ebbe la sua dose di ossido di carbonio. Coinvolto nelle sorti magnifiche e progressive del progresso tecnologico.
La strada doveva collegare i versanti piemontese e valdostano del parco, ma grazie alla mancanza di risorse e a un improvviso ravvedimento, le magnifiche sorti non progredirono oltre i salti di roccia che incombono su Pont Valsavaranche. Il ripensamento non impedì però alla strada di violare lo splendido pianoro sul lato nord del colle, dove oggi i motori a scoppio sciamano in quantità. Tuttavia, da alcuni anni, nei giorni festivi di luglio e agosto, per sei ore il colle e il piano del Nivolet ritrovano decoro e maggior silenzio. Il progetto si chiama “A piedi fra le nuvole”. Le nuvole che sovente stazionano lassù, desiderose di decoro e maggior silenzio: tutti i giorni a tutte le ore. Desiderose di ripristinare una distanza.
Andare alla Ramière? Troppo lontano!
Così si replica alla proposta di andare “alla Ramiére” d’inverno. “Sei matto?”, è la risposta della quasi totalità degli sci-alpinisti. E in effetti solo pochi visionari, amanti della solitudine, cultori di Amundsen, si avventurano in quei lunghi valloni che s’insinuano nelle Cozie valsusine, per lunghi mesi preda dell’ombra e delle valanghe.
Valle Argentera e Val Thuras. Il Sestriere è lì, a un tiro di scoppio, con i suoi caroselli pistaioli. All’imbocco delle due valli passa la Via Lattea, costellazione di impianti a fune che annullano gli “anni luce” che separavano d’inverno le montagne di Sauze d’Oulx e di Monginevro.
In fondo alla Valle Argentera e alla Val Thuras c’è la Punta Ramiére: “Una montagna delle Alpi Cozie di 3.303 metri. Si trova sulla linea di confine tra Italia e Francia. Dalla parte italiana si trova tra la Valle Argentera e la Val Thuras (entrambe tributarie della Valle di Susa), a sud-est dell’abitato di Cesana Torinese. È divisa tra i territori comunali di Cesana e Sauze di Cesana, che culminano entrambi con la cima della montagna. Dalla parte francese si trova nella regione del Queyras a nord dell’abitato di Abriès”. Così Wikipedia.
Cercando ancora sul web, o su qualche testo di geografia, si scopre anche che la Ramière (Bric Froid per i francesi) è un importante nodo orografico. Una caratteristica che balza all’occhio sulla mappa. Così come sulla mappa balza all’occhio che la Punta Ramière è, appunto, lontana. E lontana appare agli sci-alpinisti e ciaspolatori saliti al Giassez o alla Dormilleuse. La osservano sull’orizzonte di occidente. Remota. Misteriosa. Poi sono arrivati gli elicotteri.
Gli elicotteri che nella stagione della neve solcano il cielo immacolato delle due valli e portano lassù, su quelle montagne gli eli-sciatori.
Annullando la lontananza. E il mistero. Già, il mistero.
Montagne lontane. Montagne sacre.
Le montagne? Onde di luce che danno senso all’orizzonte. Che danno senso allo quotidianità dei cittadini della pianura, abitanti delle città intasate di lamiere e veleni.
Le montagne sono una prospettiva, è bello sapere che esistono, e che rappresentano un mondo diverso …
“Senza l’uomo la montagna muore”. Un mantra reiterato in tanti convegni. Certo, senza l’uomo pastore, agricoltore che l’ha vissuta, plasmata per millenni, muore un paesaggio che rende la montagna accettabile. Ma in verità, senza l’uomo la Montagna, quella delle cime, starebbe benissimo. Caso mai, sarebbe l’uomo a soffrirne la mancanza.
Ed è per questo, anche per questo, che occorre ridare alla montagna delle cime un valore. Ritrovare il rispetto. Ripristinare una deferenza. Un senso di devozione.
Altri popoli le chiamano “montagne sacre”. Sono il luogo della Divinità, del Mistero. Su queste montagne Homo sapiens non deve posare piede. Perché il Mistero devo rimanere tale.
E allora, perché non fare in mondo che, almeno nella stagione della neve, la Punta Ramiére rimanga irraggiungibile? Decidere di non salirci. Guardarla da lontano. Lasciare quella cima appannaggio del sogno.
Ecco, la Punta Ramiére montagna sacra. Possiamo farlo. Dipende da noi.
Luca Giunti, Toni Farina