Arrampicate e ambiente
Pubblichiamo una riflessione sul rapporto tra arrampicata e ambiente, scritta da Alessandro Gogna nel 1996 e ancora oggi di grande attualità. Copyright: Gognablog

La catena alpina da sempre occupa il posto di rilievo nella storia dell’alpinismo, vuoi per l’importanza di molte sue cime e pareti, che hanno in passato sfidato i sogni dei più attivi ricercatori di nuovi itinerari alpinistici, vuoi per la bellezza di alcune vie che, per l’eccellenza della roccia, sono giustamente diventate “classiche” e quindi sono frequentemente ripetute da arrampicatori di tutto il mondo.
Quando un percorso è ripreso da molte cordate all’anno, generalmente pone problemi etici, perché ci si domanda se è il caso di attrezzarlo convenientemente con un minimo di anelli fissi e cementati al silicone (a sostituzione di chiodi magari vecchi e inaffidabili), oppure lasciarlo così come è, investendo quindi le cordate interessate della più completa responsabilità.

È quasi inutile dire che ciò ha suscitato ogni volta un vespaio di polemiche: ogni alpinista ha la sua opinione in materia e qualcuno talvolta denuncia pubblicamente la nuova tendenza di “spittare” alcuni tra gli itinerari più classici delle Alpi in nome della “sicurezza”.
La tendenza in ogni caso, e non v’è regione (neppure oltralpe) che presenti eccezione, è quella di importare sempre più massicciamente la filosofia e le pratiche dell’arrampicata sportiva nell’ambito psicologico e materiale sul quale finora aveva regnato la montagna.
Se Paul Preuss, Enzo Cozzolino o Reinhold Messner avevano soprattutto a cuore l’integrità e la nobiltà della montagna, che quindi doveva essere protetta dalle aggressioni con materiale ferroso in una rigida difesa di un territorio che doveva rimanere “impossibile”, l’analisi della moderna arrampicata sportiva evidenzia, nei progetti, nell’azione e nelle nuove etiche suoi proprî, un’esigenza di graduale definizione di un comportamento che dev’essere uguale per tutti: la montagna, la parete, la roccia hanno perso la loro qualifica di interlocutori, e la libertà d’interpretazione del nostro agire tende a diminuire.
Del vecchio concetto di “impossibile” rimane solo, continuamente eroso dai progressi, un margine di impossibilità fisica, un arretramento alla linea Maginot del classico specchio su cui non ci si può arrampicare, mentre quella parte di “impossibile” che si riferiva ai tabù psicologici e alla libertà interiore di scelta nell’agire è stata brutalmente soppressa.
Con il decrescere del tasso di costruttiva anarchia, così caratteristico dell’alpinismo, si assiste ad una progressiva uniformazione che tende ad eliminare la vera avventura privilegiando gli aspetti tecnici, fisici, spettacolari e competitivi.

Un aspetto assai deleterio per l’integrità rocciosa, del tutto proprio dell’alpinismo, permetteva alle varie cordate di togliere e ripiantare i chiodi sempre nelle stesse fessure. Le motivazioni di questo comportamento erano tante: tra le più forti, la considerazione che i chiodi costano soldi e, soprattutto, la segreta volontà di non facilitare coloro che avrebbero seguito.
Il risultato comunque assicurava un veloce degrado delle fessure, specie quelle usate per fare le soste. In certi periodi di alcuni decenni del secolo XX, stranamente ricorrenti, la mania di schiodare completamente le vie per riportarle al loro primitivo grado di difficoltà ha provocato scalmanate irruzioni di alcuni fanatici sugli itinerari più in voga, dopo il passaggio dei quali si potevano contare più danni che pulizia: fessure massacrate, chiodi riottosi a fuoriuscire martellati completamente dentro per renderli inservibili. Questi vandali calvinisti erano ben lontani dal comprendere che un itinerario non si riqualifica automaticamente ricorrendo alla schiodatura ad oltranza. Danni irreparabili e distruzioni nella maggior parte dei casi portavano a nuove richiodature.
Proprio partendo da queste considerazioni, i moderni difensori della sicurezza hanno avuto gioco facile ad imporre la soluzione definitiva: lo spit.

Anche se in passato ne è stato fatto un grande uso per necessità storiche, i chiodi da roccia possono essere in gran parte sostituiti da nut e friend, strumenti di sicurezza e progressione che richiedono fantasia, non sono dannosi per la roccia e sono facilmente posizionabili e amovibili. Il sofferto abbandono dell’artificialismo spinto degli anni Sessanta è stato un primo passo, ma ancora parecchio cammino occorre compiere sulla strada del clean climbing. Lo spit permette un minor uso di mezzi artificiali, ma la sua adozione spinta all’estremo rischia di tramutare un itinerario in una via ferrata per esperti arrampicatori. Nei casi di “sistemazione” di una via, raramente si privilegia la ricerca delle possibilità di assicurazione alternativa: fessure che permetterebbero l’uso facile di nut e friend si vedono svuotate di significato per colpa del posizionamento nei suoi pressi di uno spit, tanto comodo quanto istigatorio alla pigrizia mentale. Le attrezzature definitive sono nemiche dell’avventura e dell’ambiente.
Di sicuro, libertà maggiore di scelta è stata concessa per l’apertura di nuovi itinerari. Qui il capocordata può scegliere quanto rischio affrontare, nessuno lo ha mai preceduto in questa valutazione. Piantando gli spit egli sa che questi non verranno mai rimossi fino alla lontana consunzione: quindi maggior numero di spit significa maggiore facilità per i ripetitori, a tal punto da far apparire gli apritori come generosi altruisti. Permettetemi di dubitarne, io non riesco ad accettare come genuino questo presunto cupio dissolvi dell’amor proprio e dell’egoismo. Di fronte a queste finzioni preferisco rimanere ancorato ai criteri del passato e lanciare la provocazione per la quale piantare uno spit ogni due metri e mezzo (lo stile delle cosiddette vie plaisir) equivale ad una via ferrata per esperti arrampicatori. E qui non ha senso neppure distinguere se una via del genere sia stata aperta dal basso o dall’alto: sarebbe infatti come disquisire se una via ferrata debba essere costruita dal basso o dall’alto!
Alessandro Gogna