Greenwashing, la sostenibilità di facciata dei potenti della terra

Di Federico Rampini. Copyright: La Repubblica

Davvero siamo tutti ambientalisti? Da Xi Jinping a Jeff Bezos, i potenti della terra hanno in comune un nuovo Vangelo: la sostenibilità. Leader politici che continuano ad autorizzare la costruzione di nuove centrali a carbone, o chief executive di multinazionali dall’impatto ambientale distruttivo, abbracciano la retorica dell’emergenza climatica. Quanto c’è di sincero, quanto invece fa parte di un travestimento ideologico? Tutto parte dalla pratica del “greenwashing”, che pervade la nostra vita quotidiana, ci insegue come consumatori o come cittadini. “Greenwashing”, letteralmente significa dare una lavata di colore verde. E’ una specialità dei tanti uffici delle relazioni esterne delle multinazionali, e non solo loro: pagati per aiutare i top manager ad apparire come dei crociati nella missione santa per salvare il pianeta.

Jeff Besos

Il “greenwashing” ha una definizione tecnica molto precisa negli Stati Uniti, perché questo termine è stato adottato dalla Federal Trade Commission (Ftc), un’authority che ha competenze in materia di antitrust ed anche di tutela dei consumatori. Il “greenwashing” ricade in questo secondo ambito, la Ftc se ne occupa in quanto persegue la pubblicità menzognera e altre forme di inganno ai danni dei consumatori. Fra i tanti esempi si possono citare queste tipologie classiche: prodotti che vengono pubblicizzati in un paesaggio naturale come se fossero “amici dell’ambiente” mentre non lo sono affatto (vedi i Suv in mezzo alle foreste); prodotti che si presentano come “organici” oppure “riciclabili o biodegradabili al 100%” senza esserlo; “vanterie irrilevanti” come l’esclusione di un componente tossico che è comunque fuorilegge o inutilizzato per altre ragioni industriali; slogan vaghi sulla sostenibilità o l’impatto aziendale zero o la neutralità carbonica, impossibili da verificare; il ricorso a “certificazioni” inesistenti o di dubbia validità. Tra gli esempi di “greenwashing” che coinvolgono grandi aziende e marchi celebri, eccone alcuni: numerose acque minerali consumate in America e nel mondo esibiscono simboli ecologici su bottiglie di plastica; la catena di ipermercati Walmart ha lanciato una campagna d’immagine “Go Green” pur utilizzando solo per il 2% dei propri consumi energetici le fonti rinnovabili; Starbucks ha pubblicizzato contenitori di caffè biodegradabili, che in realtà contengono più plastica delle versioni precedenti. Va precisato tuttavia che alla definizione stringente della Ftc non corrisponde una guerra al “greenwashing” altrettanto implacabile. Nella realtà molte aziende continuano a farla franca, anche perché gli uffici legali delle multinazionali sanno come ingaggiare battaglie interminabili per difendere le proprie pratiche.

C’è poi un problema più vasto, che va ben oltre la pubblicità “verde” menzognera. E’ il “greenwashing” che potremmo definire ideologico, dove alle grandi affermazioni non corrispondono i fatti. Questo viene praticato ai massimi livelli, dai top manager più potenti della terra fino ai leader politici, con la complicità subalterna dei media. Jeff Bezos, fondatore e a lungo chief executive di Amazon, si è scoperto ambientalista e ha creato un fondo di 10 miliardi di dollari (pochi spiccioli in proporzione alla sua ricchezza) per azioni filantropiche nella lotta all’emergenza climatica. Però il “modello Amazon” si fonda sulla proliferazione di rifiuti – imballaggi di cartone e carta – nonché sull’uso di flotte di aerei camion e navi che tuttora funzionano con carburanti fossili. Un altro caso emblematico è quello di Elon Musk, il fondatore della Tesla. L’auto elettrica sembra il non plus ultra della sostenibilità, ma lo è solo in apparenza. Anzitutto, finché non cambia radicalmente l’assetto delle utility che producono l’energia, l’auto elettrica si limita a spostare l’inquinamento dai centri urbani verso le aree dove sono ubicate le centrali. Ovverossia: se le centrali energetiche continuano a funzionare a carbone o a gas naturale, l’auto elettrica inquina consumando quelle energie fossili, anche se le emissioni di CO2 non escono dal motore sotto forma di gas di scarico. C’è poi un impatto ambientale di altro tipo: le devastazioni create per estrarre minerali rari che si usano nelle batterie elettriche; le discariche dove finiscono queste batterie al termine del loro ciclo di vita. L’impatto dell’auto elettrica è la punta dell’iceberg di una gigantesca impostura ideologica: tutta l’economia digitale si è spacciata come amica dell’ambiente perché i quartieri generali di Apple Amazon Google Microsoft non sono fabbriche con ciminiere fumanti. Ma il loro inquinamento lo hanno spostato altrove, nelle catene produttive e logistiche dilatate su quattro continenti. “Greenwashing” all’ennesima potenza, quando i multimiliardari di questo settore si atteggiano a paladini dell’ambiente.

Questo porta infine all’impostura ideologica dei governi. Il campione mondiale del “greenwashing” politico è Xi Jinping; complice anche nel suo caso il sistema dei media. Quando Donald Trump annunciò nel 2017 l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi, il presidente cinese colse l’occasione per presentarsi come il paladino dell’ambiente. Gli organi d’informazione occidentali, per ostilità a Trump, fecero da cassa di risonanza della propaganda cinese. Per tre anni consecutivi Xi Jinping si esibì nel suo “greenwashing” in ogni consesso globale, dall’assemblea generale delle Nazioni Unite al World Economic Forum di Davos. Nel frattempo le emissioni di CO2 cinesi continuavano a crescere mentre quelle americane calavano. Al termine del quadriennio Trump, l’America era ormai ridotta alla metà delle emissioni carboniche della Cina: 14% contro 28% del totale mondiale. Inoltre l’impatto ambientale dell’economia cinese tracima ben oltre i confini della Repubblica Popolare. La Cina continua a costruire nuove centrali a carbone non solo sul proprio territorio ma anche in molti paesi asiatici e africani destinatari degli investimenti della Belt and Road Initiative (già definita Nuove Vie della Seta). Lo stesso Xi sposta al 2060 l’orizzonte della neutralità carbonica e non accetta vincoli né controlli sugli obiettivi che proclama. Ma la narrazione ormai lo ha premiato, il “greenwashing” raramente comporta dei rischi per chi lo pratica. 

Federico Rampini. New York, 3 maggio 2021