La tecnologia migliora le performance ma impoverisce l’esperienza
Di Nicola Pech. Copyright: HuffPost
L’ennesima via ferrata inaugurata nell’estate del Covid sulle Dolomiti sollecita una riflessione che comprende ma supera l’impatto ambientale e paesaggistico che queste installazioni hanno sul territorio.
Come hanno bene evidenziato le associazioni ambientaliste in un comunicato congiunto, l’infrastrutturazione della montagna con cavi, scale, ponti tibetani, spit, crea antropizzazione in quota e favorisce il “propagarsi di una sommatoria di situazioni che nel tempo andranno a mettere a rischio la biodiversità presente e il paesaggio (nuova viabilità, nuovi punti ristoro o potenziamento degli esistenti)”.
Al di là dell’impatto ambientale, è sottovalutato il danno culturale che le ferrate fanno ai frequentatori della montagna su cui, a parole, si dice di voler investire in consapevolezza e autoprotezione.
L’invasione tecnologica che le attività outdoor tutte, dall’alpinismo alla vela, dall’escursionismo al ciclismo, hanno subito negli ultimi trenta anni ne ha addomesticato l’esperienza invadendo spazi liberi fisici e mentali. La tecnologia ha di fatto trasferito conoscenze e capacità dall’uomo allo strumento favorendo atteggiamenti passivi (ho il GPS ergo non ho bisogno di osservare l’ambiente in cui mi muovo per orientarmi). Delegando alla macchina molte delle attitudini che certe attività richiedono a chi le pratica, si è limitata o del tutto soppressa la capacità di imparare dai propri errori, di individuare vie di uscita da difficoltà o pericoli, di trarre dall’ambiente in cui ci si muove indicazioni importanti.
È senza dubbio vero che alpinisti e velisti di punta hanno migliorato le perfomance grazie anche ai progressi della tecnica, raggiungendo traguardi impensabili solo fino a pochi anni fa, ma è altrettanto vero che il praticante medio si è involuto, sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista culturale.
La rincorsa alla tecnologia nelle attività outdoor è lo specchio di quello che avviene nella società, ma se nella quotidianità il ricorso agli aiuti della tecnologia è motivato dalla fisiologica ricerca dell’uomo di mezzi per ridurre la fatica, lo stesso non dovrebbe essere per attività intrinsecamente inutili come l’alpinismo, l’escursionismo, la vela etc, che l’uomo pratica per diletto e per mettersi alla prova in situazioni che una vita urbana non contempla più.
Spinto da un marketing abilissimo, il praticante medio potenzia la propria attrezzatura depotenziando le proprie abilità. Le vie ferrate, la pedalata assistita, il GPS permettono a tutti di salire più in alto o andare più lontano ma ne impoveriscono l’esperienza. È più difficile, e sviluppa più abilità eterogenee, trovare una flebile traccia di sentiero o saltare da una masso a un altro su una ganda piuttosto che trazionarsi su un cavo metallico di una ferrata.
Chi pratica attività outdoor ha la grande opportunità di svincolarsi, seppur temporaneamente, dall’utilità delle proprie azioni, coltivando la propria creatività. In questi momenti la tecnica può tornare a essere un mezzo e non un fine, ritrovando il suo spazio originario nella storia e nella natura dell’uomo. E di questo insegnamento si può giovare la quotidianità dell’alpinista o del velista, una volta che questi tornerà alla propria vita.
Nicola Pech