Pensare come i ghiacciai

Louisiana Story”, l’ultima opera del grande documentarista americano Robert Flaherty, narra una vicenda apparentemente contraddittoria.
Ai bordi di una affascinante foresta paludosa, frequentata dalla minoranza francofona dei Cayun, compare un giorno, simile a un’astronave, una chiatta su cui è montata una enorme trivella per le ricerche petrolifere. L’autore non lo dice espressamente ( e forse in quegli anni neppure ne possedeva la consapevolezza piena), ma è ovvio che l’intero ecosistema del luogo potrebbe venire gravemente danneggiato se la trivellazione avesse successo.

Quella sconfinata foresta, con le acque iridescenti che ne ricoprono le radici e con la variegata fauna che vi dimora è anche il regno immaginario del protagonista della storia: un adolescente locale che guida la propria barchetta nei meandri della palude e ne conosce ogni segreto.
Il ragazzo finisce per fare amicizia con gli operai della trivella i quali, dopo molti giorni di inutili tentativi, decidono di abbandonare l’impresa. L’adolescente si dispiace per loro e, a notte fonda, si arrampica sulla torre e versa nel buco scavato dalla trivella una “medicina” magica ottenuta in dono da alcuni indiani superstiti. Miracolo! Il mattino successivo, prima di tirare su le ancore, gli operai fanno un ultimo tentativo. Grazie alla fede dell’adolescente nella potenza magica della “medicina” un fiotto di petrolio schizza verso il cielo. La morale è evidente: le trasformazioni degli ambienti naturali e il loro utilizzo per scopi umani possono avere successo ( senza effetti collaterali disastrosi) solo a patto di allearsi con la poesia “aurorale” che permea la natura.
Questo vecchio film, realizzato immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, mi è venuto in mente leggendo la nuova edizione del famoso libro di Aldo Leopold “ Pensare come una Montagna”.
Ammetto che non c’è una connessione immediata tra libro e film. Ma probabilmente lo stimolo a scoprire i fili segreti che li uniscono mi è derivato proprio dalla fragilità del sentiero su cui ho intuito di poter posare il piede.

Ghiaccio di Verra e Castore. Foto: Luigi Ranzani

John Muir racconta d’essersi sdraiato una volta sulle placche granitiche levigate dallo scorrimento dei grandi ghiacciai del Quaternario per imparare a pensare come pensa un ghiacciaio. Più tardi gli ha fatto eco Aldo Leopold che, come si è appena detto, già dal titolo invitò i suoi lettori a “pensare come una montagna”. Se a queste affermazioni si attribuisce un significato più o meno letterale appaiono gratuite e retoriche; possono essere liquidate come un mediocre gioco di parole. Invece, a saperne decifrare il vero senso, rivelano un messaggio profondamente significativo, rivolto a tutti noi. Con una differenza: in realtà non dovremmo aver bisogno di sforzarci a immaginare come pensano i ghiacciai, o se per questo anche i falchi, i lombrichi, le faggete, le foreste della Louisiana e quant’altro ci circonda. Il pensiero umano, quando accetta di accogliere in sé con umiltà i linguaggi unificanti della poesia e della metafora, diventa automaticamente il pensiero della natura, intesa nella sua globalità: ghiacciai, vette innevate e falchi compresi. La natura, attraverso i processi dell’evoluzione, si è costruita pezzo per pezzo un organo pensante. Quell’organo pensante è l’intera specie umana. Sarebbe sciocco illuderci di poter giungere a pensare come i falchi o a ascoltare la loro voce che reclama diritti; dobbiamo però essere consapevoli che alla nostra specie è affidato il compito di pensare per i falchi; e per le marmotte, i delfini, le foreste e via enumerando. Il dramma del Pianeta ha origine proprio dal tradimento che abbiamo compiuto rifiutandoci di riconoscere quale fosse il significato della missione assegnataci. E non comprendendo che la nostra sviluppatissima corteccia cerebrale non si intendeva posta solo al servizio delle nostre pulsioni predatorie, dei nostri sogni ardimentosi e dei nostri egoistici disegni, ma anche di ogni altra manifestazione della natura, animata o inanimata che fosse.

Qualcuno può pensare che il rimorso per questo tradimento sia emerso di recente, all’interno di una ristretta élite di ambientalisti. Invece non è esattamente così. Fin dalla più remota preistoria i nostri antenati avevano intuito che in molte delle loro azioni – anche se necessarie alla sopravvivenza, o orientate verso quello che oggi chiameremmo “progresso”- si poteva nascondere il germe di un distacco colpevole dal ruolo che all’essere umano era stato assegnato dal respiro unificante della natura. Una tipica caratteristica delle cosiddette “ culture arcaiche” è stata ed è quella di proiettare all’esterno della psiche individuale o di gruppo la composizione di tale conflitto. Per questo ogni aspetto del mondo naturale venne immaginato come abitato da un’ entità divina, tendenzialmente diffidente, con la quale era opportuno venire a patti, attraverso pratiche magico/cultuali appropriate, onde evitarne la vendetta. Gli esempi sono infiniti e vanno dagli esorcismi pittorici dei cacciatori paleolitici ai riti propiziatori degli antichi romani. Non dimentichiamo che il massimo sacerdote di Roma si chiamava Pontifex, cioè costruttore di ponti. Il suo ruolo era quello di appacificare ogni anno lo spirito del Tevere, facendosi perdonare il “sacrilegio” di averne vinto la corrente con il ponte Sublicio. Oggi, con il salutare tramonto del mondo magico dagli orizzonti della nostra razionalità, abbiamo perduto purtroppo anche il ricordo di quelle, altrettanto salutari, inquietudini.

Ghiacciaio dell’Argentière. Foto: Luigi Ranzani


Invece di agire come i portavoce della Madre Terra stiamo violentemente recidendo le sue stesse corde vocali. Tra i nostri mille miliardi di neuroni cerebrali, possibile che non ce ne sia un pugno in grado di farci capire che la salvezza – oggi come ieri – sta solo nel riconquistare la via dell’alleanza?
Carlo Alberto Pinelli