La Capanna Carrel chiude per lavori: uno spunto per rivedere funzione ed estetica dei rifugi alpini.

E’ notizia di questi giorni che la Capanna Carrel, punto di appoggio per la salita al Cervino dal versante italiano, chiude per ristrutturazione durante la prossima estate. (Il progetto prevede il rifacimento del bivacco, senza aumentare i posti letto con approvvigionamento idrico, alimentazione elettrica, collegamento al web e smaltimento dei reflui, che saranno portati a valle).
Le Guide del Cervino scrivono sul loro sito ufficiale: “vi informiamo che la Capanna Carrel sarà oggetto di ristrutturazione durante l’estate 2023 ed inevitabilmente sarà inagibile agli alpinisti e ai professionisti della montagna. Non sarà possibile bivaccare nei pressi della capanna. Ci scusiamo per il disaggio. Per gli alpinisti molto allenati ed esperti: è possibile fare la salita in giornata partendo dal rifugio Duca degli Abruzzi (2800 m)”.

La Capanna Carrel in una foto del sito delle Guide del Cervino

La salita al Cervino dalla Cresta del Leone diventa in questo modo molto più selettiva. La mancanza di un punto di appoggio cambia le regole di ingaggio sia dal punto di vista quantitativo (aumenta il dislivello) sia dal punto di vista quantitativo (meno affollamento).
Non tutto il male viene per nuocere si dice e c’è chi, invece di vedere il bicchiere mezzo vuoto, preferisce vederlo mezzo pieno e scrive: “in tal modo il Matterhorn, ma vale anche per tante altre montagne servite da altissime capanne (Bernina incluso), potrà respirare e scrollarsi di dosso le processioni d’assalto alla cima.
E chi se ne frega, quando non avrò più gambe e fiato per condurre compagni di cordata partendo da quote più ragionevoli sarà il momento di andare altrove”.
(Cit. Michele Comi, Guida Alpina)

La questione dei rifugi, l’opportunità di costruirne sempre di più e sempre più confortevoli, ha da sempre avuto un ruolo importante nella critica della nostra associazione alla banalizzazione della montagna e dell’alpinismo come espressione di cultura.
Ne approfittiamo quindi per riportare alcuni passaggi, oggi più che mai attuali, ripresi da un articolo di Carlo Alberto Pinelli, fondatore e past president di Mountain Wildereness.
Qui potete leggere l’articolo completo.

Agosto 1988, Punta Helbronner: da sinistra Carlo Alberto Pinelli, Ornella Antonioli Gogna e Alessandro Gogna

L’alpinismo e la conquista della notte

Quando cerchiamo di immaginare quali fossero le difficoltà, i timori, i blocchi psicologici che limitavano gli exploits dei padri fondatori del turismo verticale, spesso tendiamo a prendere in considerazione i materiali e il vestiario inadeguati, la paura dell’ignoto, le troppo elementari conoscenze delle tecniche alpinistiche necessarie per superare i ripidi pendii ghiacciati o i ponti di neve sui crepacci e così via. E sottovalutiamo quello che probabilmente rappresentò per lungo tempo uno dei più seri ostacoli con cui quei nostri predecessori dovettero fare i conti. Per calpestare vittoriosamente una vetta non bastava soltanto dimostrarsi all’altezza delle difficoltà tecniche e delle incognite che l’itinerario prescelto presentava. Era necessario anche affrontare una o più notti all’addiaccio, a quote e in luoghi inospitali, dove nessun uomo di buon senso fino ad allora aveva mai pensato di poter cadere addormentato senza risvegliarsi automaticamente nell’Aldilà. In altre parole: il successo dell’alpinismo dei primordi dipese in buona misura anche dalla conquista della notte. Una conquista che – al pari di molte altre – nascondeva in sé i germi di molte gravi future contraddizioni e degenerazioni.

Il primo rifugio alpino

Fu solo nel 1853, quando ormai l’ascensione al Monte Bianco era diventata quasi di moda tra i turisti più avventurosi, che le guide di Chamonix decisero di edificare di nuovo ai Grands Mulets una vera a propria capanna di legno e pietra. Si trattava, come è facile immaginare, di un tugurio puzzolente e privo di qualsivoglia sospetto di comfort. Niente cuccette e niente tavolato: i visitatori dovevano coricarsi alla meglio su mucchi di paglia ridotti a strame fetido. Anche se a noi oggi la cosa può sembrare inverosimile, abituati come siamo a ben altri scempi, quel primo modestissimo tentativo di antropizzazione della wilderness alpina causò notevoli dissensi e fu denunciato come una autentica profanazione.
“ Simili edifici” scrisse allora un alpinista inglese “grazie ai quali una curiosità banale può comodamente giungere ad ammirare scenari grandiosi, tradiscono il loro scopo. Sappiatelo! Se le comodità fanno due passi avanti verso il pittoresco, il pittoresco si ritira d’altrettanti passi!”

Cartolina con un disegno di Samivel, L’heure de la soupe

La Capanna Margherita

La “fragile arca” è stata spazzata via quasi ovunque, per far posto a solidissimi “traslatlantici”, all’interno dei quali gli ospiti ritrovano fin troppe delle comodità lasciate in pianura; tra queste ovviamente l’affollamento eccessivo. Però addossare ogni colpa all’aumento vertiginoso dei frequentatori della montagna è una spiegazione che non basta a soddisfarci. Perché tende a trasformare quanto è avvenuto in una fatalità ineluttabile e cancella ogni responsabilità per le politiche di incentivazione indiscriminata delle attività alpinistiche praticate dai vari club alpini, pro loco, agenzie di viaggio, associazioni di guide, ecc..
Certamente non è possibile identificare il momento preciso in cui, nella pianificazione dei ricoveri alpini, la via del rispetto ambientale, della discrezione, dell’essenzialità fu abbandonata per scelte che hanno portato al trionfo delle attuali offerte. Se c’è un rifugio che ha riassunto in sé molti degli aspetti più discutibili della conquista della notte in alta quota, quel rifugio è senza dubbio la capanna Regina Margherita al Monte Rosa. Intanto perché l’edificio fu innalzato, per la prima volta nella storia, proprio sulla vetta di una grande montagna; poi perché per costruirlo fu minata e spianata la stessa vetta; infine perché la faraonica, indecente ristrutturazione compiuta una trentina di anni fa, ha rappresentato una penosa testimonianza del ritardo culturale di ampi settori del Club Alpino Italiano.

Capanna Regina Margherita

Quale futuro per i rifugi alpini?

Non sono oggi l’unico alpinista “romantico” che reputa che per i rifugi sia giunto il momento della resa dei conti e che urga affrontare un riesame globale dell’intero problema. La conquista della notte, proliferando sempre di più, in assenza di ogni regola, è sul punto di causare la sconfitta del giorno. Vale a dire la degradazione delle esperienze autentiche che l’alta montagna può ancora offrire a chi le si avvicina direttamente, rinunciando ad ogni protesi superflua.
Per fronteggiare la crescente domanda si è fatto ricorso all’apertura di nuovi rifugi, all’ampliamento progressivo di quelli esistenti, alla messa in opera di vie ferrate e di altri incentivi al consumo.
Ma questa politica contiene gravi errori di valutazione. Essa infatti trascura i valori della wilderness – e della solitudine che la caratterizza – come cardini irrinunciabili della qualità dell’alpinismo.
Noi crediamo che la progettazione e la capienza dei rifugi non debbano inseguire la richiesta dei potenziali frequentatori, ma vadano calibrate sulla quantità di presenze che gli ambienti naturali, resi più facilmente fruibili grazie a tali ricoveri, possono sopportare senza perdere di significato.”

Una provocazione?

Torniamo all’inizio del nostro articolo, alla chiusura (temporanea) della Capanna Carrel, alle parole di Michele Comi e al significato dell’alpinismo come ricerca e come scoperta, anche di se stessi.
Continuo a restare fedele alla convinzione, scrive Pinelli, utopica quanto si voglia, secondo la quale quando un rifugio si rivela insufficiente a ospitare il crescente flusso dei visitatori, la soluzione non dovrebbe essere quella di ampliarlo, ma semmai di chiuderlo, per salvaguardare la qualità dell’ambiente montano circostante.