Sono i nostri “Io” i nemici del Pianeta
L’appello del grande filosofo e psicoanalista: abbandonare definitivamente l’ego cartesiano che ci contrappone alla natura. Trasformando noi stessi in ecosistema.
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Miguel Benasayag è nato in Argentina. Qui ha studiato medicina e nello stesso tempo ha militato nella guerriglia guevarista. Arrestato tre volte, venne torturato e passò molti anni in prigione. A seguito dell’assassinio da parte della giunta militare di due religiosi francesi, la stessa giunta acconsentì a liberare i prigionieri francesi. Benasayag, grazie alla sua doppia nazionalità franco-argentina (la madre, ebrea francese, aveva lasciato la Francia nel 1939), poté beneficiare della liberazione ed approdò così in Francia, paese ch’egli non conosceva ancora. Fonte: Wikipedia
Oggi il tema della sostenibilità ambientale è sempre più al centro dei nostri discorsi. Sorge spontanea la domanda: l’individuo è davvero disposto ad affrontare i sacrifici, il cambio dello stile di vita, le rinunce necessarie per adottare comportamenti eco-friendly? Siamo immersi in una società invasa dalla presenza di nuove “minacce”. I media, la radio, la televisione e i nuovi mezzi di informazione digitale, ci tempestano di notizie su nuove crisi ecologiche, emergenze umanitarie, sul riscaldamento globale e su nuove malattie virali che minacciano la nostra società. Di fronte ad un futuro non più percepito come promessa di emancipazione globale, ma come minaccia e incertezza l’uomo si chiude in se stesso, per non pensare alla complessità che lo circonda.
Pensare che l’azione individuale, l’idea di sacrificio promosso dal singolo sia una risposta possibile alla crisi climatica che stiamo vivendo vuol dire perpetuare l’illusione moderna che l’uomo sia al “centro del mondo”.
Come emerso dalle mie ricerche psicoanalitiche, di fronte alla complessità contemporanea e ad un senso di futuro come minaccia l’individuo vive in una condizione di disagio profondo, di tristezza esistenziale, a testimonianza della sua impotenza. È in corso una trasformazione radicale, di cui è necessario approfondire le ragioni nascoste: il concetto di individuo così come lo concepiamo sin dai tempi moderni è entrato in crisi; una crisi che mette in luce la storicità di questo concetto. L’uomo moderno, lo scienziato per Galileo, il cogito di Cartesio, l’io puro kantiano riposano su una scissione fittizia dell’individuo dai propri legami con l’ambiente.
La divisione netta tra ragione e natura, rappresentante e rappresentato, soggetto e oggetto ha aperto infinite possibilità tecniche di agire sull’ambiente, ha posto le basi della conoscibilità “oggettiva” del reale come prevedibilità del fenomeno osservato e quindi sua manipolazione, in vista di una “razionalità” tecnica capace di dominare gli elementi circostanti.
L’esaltazione della ragione universale in grado di “risollevare le sorti dell’umanità”, panacea in grado di superare i limiti dell’uomo e della sua “naturalità” ha portato con sé una concezione lineare del tempo, diretto verso la salvezza, come emancipazione di fronte ai limiti del corpo, della malattia, dell’ignoranza e della fame. Idea questa che persiste nello slogan transumanista “tutto è possibile!”.
Come può allora l’individuo oggi porsi dei limiti se il concetto di limite è stato sostituito dalla nuova speranza di una vita infinita demandata all’ibridazione tra uomo e macchina? In breve, dove ci ha portato questa idea di individuo distinto dal mondo animale e dalla natura, capace di esercitare la propria ragione in vista di una manipolazione dell’ambiente circostante? Se la crisi novecentesca della “razionalità” si è manifestata in campo scientifico e artistico con conseguenze innocue non si può dire lo stesso per le conseguenze sociali cui l’esacerbazione di una razionalità tecnica ha condotto: i totalitarismi novecenteschi, i campi di concentramento mettono in mostra i rischi a cui una concezione di individuo “razionale” può portare. Separare quindi il lato umano dall’ambiente è tanto sbagliato e rischioso quanto separare la ragione dal lato “irrazionale”, affettivo e pulsionale che guida le nostre azioni.
L’individuo in quanto figura storica non può risolvere il problema, perché ne fa parte. Il problema risiede nel sistema capitalistico contemporaneo, nel modello di progresso infinito in cui viviamo, che orienta le scelte individuali e collettive. L’idea di crescita infinita, ancora persistente nel nostro modello economico impone all’individuo di non fare sacrifici. Non si tratta allora di ri-educare gli individui, modello che fa paura e che richiama fantasmi del passato, pensando che ciò che manca oggi all’uomo è la conoscenza delle conseguenze delle sue azioni sull’ambiente; perseguendo l’idea che sia la ragione a doverci guidare nel passaggio ad un modello ecologico e sostenibile.
Piuttosto è necessario orientare i meccanismi pulsionali verso nuove forme di desiderio, di creare nuove intenzionalità desideranti, non più orientate al consumo immediato.
L’ambientalismo non è allora una questione morale, che riflette la scelta di un individuo di agire secondo ciò che è giusto, ma etica; dove con questo termine mi riferisco alla prassi di un agire orientato alla creazione di un altro paradigma di felicità e di desiderio rispetto a quello sino ad ora conosciuto. Se non creiamo pratiche di vita, nuovi modi di vita concreti che determinano un nuovo modo di desiderare e agire, al di là del dettato consumistico del capitalismo contemporaneo, non potremo mai cambiare nulla e andremo inevitabilmente verso la catastrofe.
Il tema della sostenibilità ambientale mette in luce un cambiamento antropologico in corso: la fine dell’era dell’antropocentrismo e dell’epoca dell’uomo, per riprendere le parole di Foucault. La complessità non è allora un modello teorico, è la cifra concreta della nostra realtà: l’emergere di una nuova modalità dell’uomo di rapportarsi con l’ambiente. Si tratta di uscire dall’illusione che ciascun io esista come protagonista assoluto privo di legami con la “situazione” in cui vive, al punto da percepirsi autonomo e isolato.
La ricchezza della differenza e della molteplicità che ci abita nasce proprio dal nostro interagire neurofisiologico e psicologico con la differenza e la molteplicità di situazioni che viviamo. Riconoscerci in un’ottica situazionale ci pone di fronte a noi stessi come viventi, fatti di legami con gli altri e con l’ambiente, non più individui ma ecosistema.