La curva perfetta per salvare la montagna dello sci
Intervista a Giorgio Daidola, docente universitario, velista, scrittore, cresciuto sciando: “Le Dolomiti si avviano al disastro. I monti non possono essere ridotti allo scenario di un teatro dove si assiepano le folle di un luna park”. Di Dario Cresto-Dina. Copyright: La Repubblica
Ho imparato a sciare prima che a camminare, dice Giorgio Daidola, 78 anni compiuti una settimana fa, piemontese con il viaggio incorporato, quattro vite in una. Docente di analisi economico finanziaria per le imprese turistiche all’università di Trento, maestro di sci, velista e scrittore. Un signore della montagna che da molto tempo ha lasciato Torino per sistemarsi ai mille metri di Val dei Mocheni, dove a scavare si trovano radici tedesche. “A Torino mia madre aveva una sartoria in casa che serviva la borghesia della città, con il grande rimpianto di non essere riuscita a creare una boutique di luci e vetrine. Papà era un tecnico dell’Azienda tranvie municipali. Disegnava le parti meccaniche dei tram, con un collega della Fiat materiale ferroviario aveva ideato il sistema di snodo del tram lunghi, chiamati allora bisarche. Andavamo a sciare a Salice d’Ulzio, salivamo su fino al Lago Nero dentro un silenzio di fiaba. Una montagna che non esiste più”.
Oggi in montagna si sono costruite città, un tempo accadeva spesso il contrario, la montagna scendeva anche nelle grandi città.
“È cambiato il clima. Ricordo molte nevicate su Torino, prendevo la cremagliera che da Sassi portava a Superga, grazie a mio padre avevo i biglietti gratis, e venivo giù con gli sci tra vigneti e piante di frutta. Adesso la neve si scioglie dopo poche ore e rifare la Superga-Sassi sarebbe impossibile. Sono andato a rivedere il percorso: troppi ostacoli, cemento, case”.
Non ha più sciato in città?
“Una volta sola, con il mio amico Leonardo Bizzaro. Credo fosse l’inverno del 1996, approfittammo di una nevicata eccezionale. Siamo partiti dal faro del colle della Maddalena e siamo arrivati ai piedi della collina, a pochi metri dalle auto in fila su corso Moncalieri che corre lungo il Po”.
Come è stato il suo lockdown?
“Non molto diverso dalla mia vita quotidiana. Andavo a sciare in bicicletta nella solitudine più completa, con i limiti imposti dai provvedimenti del governo ma il vantaggio di abitare in un comune con meno di cinquemila abitanti. Cercavo un po’ di riposo. Avevo appena concluso una traversata atlantica di ventisei giorni dalle Azzorre a Saint Vincent, nel Sud dei Caraibi, su una barca del 1978, la Zeffiralia terza. Perché, sa, il nome delle navi non va mai cambiato, altrimenti porta sfortuna. Le barche hanno un’anima”.
Lo sci e la vela. Che cosa li accomuna?
“La semplicità, i grandi spazi, l’arte di scivolare”.
Lei è un nostalgico? Uno di quelli che pensa che si stava meglio quando si stava peggio?
“Assolutamente no. Insegno ai giovani, leggo nei loro sguardi il futuro. Ma quando parlo di semplicità intendo il mezzo che mi consente di essere il più possibile vicino alla natura. Comprenderla significa difenderla, più delle tante parole che si sono dette nelle scorse settimane a Roma e a Glasgow. Guardi, dal 1982 scio esclusivamente con la tecnica del telemark, cioè quella del tallone libero. Vedo meglio la meraviglia che mi circonda, mi sembra finalmente di farne parte. Sono stato il primo, assieme al francese Didier Givois, a scendere in telemark un ottomila metri, il Shisha Pangma in Tibet, la quattordicesima montagna più alta del mondo. Era il 1988”.
Insomma, lei consiglia di riprendere in parte lo sci delle origini?
“Recuperare, non dico il sentimento dei lapponi e dei siberiani, ma un po’ quello degli europei di fine Ottocento e del primo Novecento. E, mi creda, il mio è un ragionamento progressista. Non molto differente da quello a cui si richiamano i ragazzi di Greta. L’alternativa si chiama Funiform, le enormi cabinovie da 25 milioni di euro che già solcano le nostre montagne, scaricando migliaia di persone su piste sempre più veloci, ma ripetitive, autostrade in mezzo alla neve che si percorrono e ripercorrono decine di volte. Questo sistema economico sta però entrando in crisi e non saranno sufficienti i finanziamenti del governo a allontanare il rischio che il turismo mangi se stesso”.
Esistono esempi virtuosi?
“In Italia la Val Maira nella alpi Marittime piemontesi e l’Alpe Devero nell’Ossola che hanno avuto risposte turistiche incoraggianti. All’estero c’è l’esempio della Nuova Zelanda che ha deciso di puntare soltanto su impianti di risalita leggeri e poco impattanti. Le Dolomiti si avviano al disastro come denuncio nel mio ultimo libro, Marmolada Bianca, che vuole difendere dallo sfruttamento turistico un simbolo mondiale di bellezza. Le montagne non possono essere ridotte allo scenario di un teatro sul palco del quale si assiepano le folle di un lunapark. E questo non significa che i montanari debbano restare poveri. Anzi”
Come si immagina l’inverno della ripresa?
“Difficile rispondere. Molto dipenderà dalle precipitazioni. La scorsa stagione è stata ricchissima di neve, una beffa per tutti noi. L’altra incognita è verificare se il gran numero di turisti che hanno scoperto l’estate della montagna e hanno saputo apprezzarla avranno voglia di tornare d’inverno, in un quadro completamente diverso, complicato dalle norme sanitarie anti Covid e quasi ovunque caotico”.
Quale dovrebbe essere lo spirito dello sciatore del futuro?
“Quello di chi considera gli sci lo strumento migliore per immergersi nella bellezza della montagna invernale, di godere del fruscio unico della neve vera sotto le lamine, di vivere ogni curva come un modo di esprimere emozioni profonde, sempre alla ricerca della curva perfetta. Quella lenta, senza sbavature, che permette di eseguire un cerchio, un cerchio magico diceva Chatwin, e tornare dove si è partiti. E’ lo ski spirit che si trova anche nelle opere di grandi scrittori, da Hemingway a Mann, da Hesse a Nabokov, che hanno dedicato pagine memorabili a questo modo profondo di vivere lo sci”.
Lei sfilerebbe al fianco di Greta Thumberg?
“Sono troppo vecchio ormai, ma riconosco che sono ragazzi in gamba nell’incalzare i potenti del mondo. C’è un problema che però dimenticano. Il sovrappopolamento della Terra: abbiamo risorse per due miliardi di persone, siamo ormai otto miliardi. A questo non esiste soluzione, a meno di ricorrere alla teoria malthusiana”.
Quali sono i suoi prossimi traguardi sportivi?
“Immagino di stare in mare, tirare i remi in barca e rimanere lì a meditare sulla mia vita. E magari scriverne, soltanto per me stesso”.