Le montagne sono proibite

Dino Buzzati (dal libro “Paura alla Scala”, 1949)

Dino Buzzati

Una legge proibisce formalmente di occuparci delle montagne: né salirci né parlarne e neppure guardarle, possibilmente. “Possibilmente” così dice la parola del legislatore con una pretesa che egli stesso evidentemente giudicava eccessiva. Perché esse stanno sempre sopra la città, dalla parte del settentrione, giorno e notte, col loro splendore.

Uno straniero arriva tra noi e domanda: «Prego, è quello il Monte Mesola, è quella la cima della Lorra?». Noi rispondiamo con un sorriso cortese, guardando per terra: «Ci scusi, signore, non sappiamo proprio, non siamo pratici» e ci guardiamo intorno, nel sospetto di qualche spia.

Preferiamo non guardarle, ora. Con un po’ di buona volontà ci si può anche abituare, per non fare dispiacere a chi ci governa. È come se non esistessero, ormai, escluse dalle quotidiane vicende della vita. Ogni tanto però involontariamente qualche occhiata le sfiora; ma si abbassano subito gli sguardi, per prudenza, cercando subito di dimenticare. Siano limpide o avvolte di nubi, cariche di neve o bruciate dal solleone, chi lo sa più? Non lo vogliamo neppure sapere, tanto grande è la riverenza per le leggi (che noi probabilmente non possiamo capire ma che di certo sono fatte per il bene nostro e dei nostri figli).

Qualcuno con abili pretesti non attinenti al divieto ha già fatto murare le finestre della sua casa rivolte a nord, per non essere tentato. E adesso vive più tranquillo, additato ad esempio. Ad uno ad uno gli ombrosi loggiati verso il settentrione si chiudono. Nelle stanze buie i bambini ora giocano urtando negli spigoli degli armadi e ogni tanto piangono per il dolore.

Alba dal Refuge des Écrins. Foto: Sergio Ruzzenenti

Un cittadino si è fatto perfino costruire una lussuosa carrozza che mai e poi mai potrà procedere sulle nostre dirupate strade. Ma le montagne non esistono più e questa è una piatta pianura, ai sensi della legge. Cosicché una carrozza simile è la più adatta, nessuno oserebbe sostenere il contrario. E tanta soggezione all’autorità non è commovente? Su e giù per la piazza, donde non potrebbe allontanarsi senza danni irreparabili, gira il meraviglioso veicolo. Reggendo le redini, il proprietario va raccogliendo i cenni di assenso dei maggiorenti, affacciati alle finestre del Municipio!

Malviste sono le scarpe chiodate, le capre, i bastoni ferrati, i fregi con le aquile, cose e immagini che possono comunque richiamare il ricordo delle montagne. E pensare che mai come quest’anno esse sono state tanto vive e misteriose. Dicono che certe sere, negli angoli tenebrosi di certi segreti cortili – le antiche mura sovrastano ambiguamente con tetri baldacchini di pietra e stillicidi – dicono che qualcuno, anima persa, venga a sussurrare notizie, e non si accendono le lanterne per paura di vedere il suo volto. Dicono che venga a riferire (noi non l’abbiamo mai incontrato, il cielo ne guardi, per misericordia) e racconti le cose vietate, una frana nella Val Lombrazza, le migrazioni dei camosci, quegli abbandonati sentieri, quei silenzi. Gli altri ascoltano, ignorandosi a vicenda, senza far parola per non tradirsi col timbro della voce.

E alcune notti, nella casa sbarrata, quando sembra di essere stanchi della giornata e niente di ciò che ci attornia più sorregge, allora anche a noi – confessiamo – capita di fare degli strani discorsi.

«Cinque anni fa, mi ricordo» comincia a un tratto un amico nelle stanze più sonnolente, poi si interrompe, come ascoltando. Ma la sua voce aveva avuto un tale accento! Quasi non fosse più abituata a quelle parole. Noi lo fissiamo con meraviglia e insieme vaghe speranze inconfessabili. Lui arrossisce un poco.

«… mi ricordo che una volta» prosegue esitando un poco come se avvertisse un pericolo, «mentre andavo solo, mi sono sentito chiamare…»

«Dove?» chiede Fausto con leggera ironia.

«Era una voce profonda» continua Antonio senza badarci «e diceva “Onio! Onio!” proprio a due metri da me. Con una flemma spaventosa, pareva che mi prendesse in giro…»

«Ma dove?» insiste Fausto.

«Mi sono voltato di colpo, ma non c’era nessuno. Molti anni fa, però» aggiunge quasi per mettersi al sicuro.

Avidamente lo ascoltiamo. Non ha detto ciò che voleva dire, evidentemente. Per un motivo ben noto ha taciuto il più importante, ecco la nostra impressione. A che cosa precisamente vuole alludere? Se almeno non ci fosse Fausto. Un buon ragazzo, non si può negare, un amico devoto. Chi può dire però di conoscerlo a fondo? Sempre con quel sorrisetto ironico che non si capisce cosa nasconda. E adesso, per cattiveria, insiste ancora:

«E dove ti è successo? In casa?»

«Che cosa vuoi che sia successo in casa? Non succedono mai in casa queste cose.»

«Per la strada allora?»

«No, neppure per la strada» fa Antonio seccamente.

«In campagna allora? Nei prati?» chiede Fausto, irridendo alla nostra prudenza (perché non campagne né prati si stendono intorno alla città, ma ci sono soltanto valloni, boschi, frane, rocce di ogni sorta e qualche piccola palude).

«Sì, in campagna» risponde Antonio quasi offeso «proprio in campagna.»

Aletshgletsher. Foto: Sergio Ruzzenenti

Che cosa dovrebbe dire di più? Forse che non abbiamo capito abbastanza? Ora ci fissiamo a vicenda, cercando conferma l’uno dall’altro.

Da parecchi giorni mi sembra infatti di udire delle voci provenienti dalle montagne. Bisogna che sia notte fonda, che le strade siano deserte, i cani di guardia assopiti con la gola stanca e il vento abbia cessato di far cigolare, qui nell’angolo, l’insegna metallica del bazar Provini & Lopez. Allora in mezzo alla quiete grandissima ho udito a più riprese qualcuno, o qualcosa, che sussurrava dalle montagne. Il vento no, perché ci sarebbe anche qui in città. Uomini no, perché le guardie ispezionavano continuamente. Bestie no, perché le bestie non sussurrano. Chi dunque? Potrebbe essere anche una suggestione a rigor di termini. D’altra parte il fatto non è inverosimile: le montagne non sono poi tanto lontane come sembra, subito dietro all’abside di San Silvestro, per esempio, proprio a ridosso, si levano le prime rocce della Rocca Priora.

Siccome non osavo parlarne, avevo finito per concludere che fosse un gioco della fantasia (e ciò all’unico scopo di tranquillizzarmi). Da quando le montagne sono proibite, l’immaginazione segretamente lavora sull’argomento come non mai. Niente di più facile che quei suoni fossero fenomeni naturali verificatisi anche in passato, solo che allora non si stava di notte con le orecchie tese ad ascoltare. Né si aprivano con circospezione le imposte, alle una, alle due dopo il tocco (spento in precedenza il lume della stanza) per rimirare il regno vietato. Io stesso ne ho sorpresi diversi – anche persone d’età, ottimi cittadini – che erano intenti a questo illecito esercizio.

Ma stasera Antonio, sia pure con reticente allusione, ha avuto il coraggio di parlarne, come si è visto. Se veramente quel caso curioso gli fosse capitato parecchi anni fa, figurarsi se non ce l’avrebbe raccontato subito. Il fatto stesso è probabilmente inventato di sana pianta. Null’altro che una storiella per toccare senza rischi l’argomento proibito.

Alta Via Dolomiti. Foto: Sergio Ruzzenenti

«C’è da vergognarsi, però» dice alla fine Fausto rompendo il silenzio, senza più scherzare stavolta. «In fin dei conti non siamo tra amici? O è proprio di me che non vi fidate?»

«Vergognarsi di che?» rispondiamo simulando sorpresa. «Che cosa mai ti metti in mente? Parola che sei ben curioso. Si può sapere con chi te la prendi?»

«Be’, lasciamo stare» fa lui, guardandoci con disprezzo. «Buona notte, io me ne vado.»

«Buona notte, buona notte.» Nessuno osa insistere per trattenerlo. Sentiamo i suoi passi giù per la scala di legno.

Restiamo in silenzio, mortificati. In fin dei conti Fausto ha ragione. La paura è però ancora più grande. Che gioia poter essere sinceri, che forza meravigliosa sarebbe. E invece no. Un’abbietta soggezione ci tiene, perfino in questa stanza sicura, tra amici fidati che ci conosciamo da bambini. Anche Antonio, intimorito dall’incidente, rientra nella consueta menzogna.

«Chissà che cosa aveva per la testa, stasera» mormora per liberarci dal troppo lungo imbarazzo. «Ho detto forse, senza accorgermi, qualcosa che gli potesse dispiacere?»

«Forse invece non hai detto qualcosa che gli avrebbe fatto dispiacere» insinua Pietro, con perfidia insolita, forse per vendicarsi.

«Perché?» fa Antonio, ostinato ormai a non voler capire. «Che cosa avrei dovuto dirgli?»

«Niente, niente» risponde Pietro. E noi istintivamente lo guardiamo. Anche lui dunque vuole tentarci? Finiremo per non fidarci neppure di Pietruccio?

«Che fumo, che aria cattiva» dice Alessandro per sviare il discorso. «Apro un po’ la finestra?»

«No, no, quella no!» esclama Antonio con una specie di ansia. «C’è la serranda rotta» (aggiunge, dominandosi, per giustificare lo scatto) «dopo non si riesce più a chiuderla. Apri quest’altra piuttosto… Dio mio, perdonatemi» conclude non resistendo più alla finzione, e ci sorride con amarezza.

Alessandro si è risieduto senza aprire. Infatti non c’è né fumo né aria cattiva, anche questo è stato un pretesto miserando. E menzogna pure è la finestra che non funziona. Dietro alla quale ci sono soltanto le montagne, cariche di notte, con le loro lunghe facce nere e potenti, cupamente sospese sulla città; e noi ne siamo indegni.