Quale sicurezza?

Che rapporti ha la “sicurezza” con le problematiche dell’ambiente in un’ottica di un alpinismo sostenibile di Alessandro Gogna

foto MW.org

A distanza di tanti anni dalla fondazione di MW Italia, archiviati i tempi in cui associarsi per un’idea nobile e condivisa sembrava la soluzione di quasi tutti i mali, come si è evoluto (o involuto) il mio personale pensiero al riguardo della frequentazione della montagna? Cercherò di rispondere focalizzando la mia attenzione su un solo grande problema, quello della sicurezza, ben consapevole che non è certo l’unico, nel tentativo di analizzare i rapporti ch’esso ha con le varie sfaccettature delle problematiche dell’ambiente e nell’ottica di un alpinismo sostenibile.
In questi tempi la preoccupazione che andare in montagna provochi incidenti e vittime è in fortissimo aumento rispetto al passato, quando forse prevaleva più un senso di fatalismo e di rassegnazione alla sventura. Una volta, di fronte alla tragedia e accanto al dolore umano c’era anche una sorte d’accettazione che l’andare per montagne richiedesse talvolta il pagamento di un tragico tributo che comunque si riteneva colpisse alla cieca. Così si giudicavano inevitabili guerre mondiali, genocidi, carestie, malattie e quant’altre sventure e lutti immaginabili.


Una consolazione a questa sofferenza umana era fornita dal naturale spirito religioso, cui però oggi si ricorre sempre meno. La fiducia nel benessere, i progressi enormi della medicina, i piaceri consolatori e materiali dei consumi per tutti, unitamente alle gioie sostitutive e virtuali di una società sempre più incollata ai video dei computer hanno portato anche l’incapacità, da parte del singolo e della collettività, ad accettare dolore e sofferenza. Stiamo riuscendo perfino a programmare lavoro e divertimento in base alle previsioni meteorologiche, montagna e natura non sono più viste come palestra di vita, rifugio, o tempio religioso: al contrario la maggior parte le vede come hobby, gioco, passatempo, vacanza con gli amici, sport.
A proposito di religione, chi oggi ha più paura, davvero e intimamente, dell’Inferno? Ma se non abbiamo neppure più paura dell’Inferno, allora perché mai la montagna dovrebbe ancora impaurire per qualche cosa? Dunque, pure montagna e natura hanno fallito: nuova ottica sportiva le disgrazie non sono più considerate inevitabili danni collaterali bensì fastidiosi quanto “evitabilissimi” difetti in un meccanismo che unisce ormai a filo doppio vacanza e danaro.
Giustifichiamo così la diminuzione degli alpinisti che salgono le vie classiche con la mancanza su di esse di adeguate e moderne attrezzature; assistiamo alla proliferazione delle vie ferrate di vetta e di valle, alla sponsorizzazione di richiodature, a segnaletiche esagerate, alla plurinformazione su vie e itinerari escursionistici, alla caccia all’ultimo itinerario selvaggio per poterlo domare con funi e scalette; assistiamo alle cause civili e penali che pretendono di fare giustizia là dove ci sono stati solo errori. E così ai ristoranti girevoli in quota o al golf sul ghiacciaio della Marmolada si aggiunge la graduale e spietata convinzione che tutto prima o poi sarà finalmente innocuo, depurato e confezionato. Si potrà scendere e salire ovunque su ogni metro quadro di roccia, con gli sci, a piedi, d’inverno, su neve che non è più neve, in inverni che non sono più inverni. E per di più avendo rinunciato a quella parola, di cui si è abusato quanto si vuole: Avventura.
Di fronte a questo scenario c’è chi, spaventato, si chiede se non stiamo sbagliando qualcosa. Da una parte sappiamo che è giusto aver abbandonato fatalismo e rassegnazione alle sventure: qui nessuno deve e neppure può tornare indietro. Dall’altra assistiamo sbigottiti ad una serie di tragici incidenti. Come il passaggio da una circolazione automobilistica su strade strette e pericolose allo scorrimento su larghe e moderne autostrade e superstrade munite di guardrail non ha rallentato il tasso d’incidenti, così, come prima, la gente cade dai sentieri, viene colpita dai sassi sulle vie ferrate, perde l’appiglio su una via di montagna o viene seppellita da una valanga in una gita di scialpinismo, più spesso in assenza di guide alpine, ma talvolta CON le guide alpine.
Permettete a questo punto un sommesso parere.
Quelle del gioco, dell’avventura no limit o più semplicemente dello sport, sono dimensioni che fanno a pugni con quell’umiltà che dovremmo avere nei confronti della montagna e quindi del possibile pericolo. Questa, sempre a mio parere, è la dimensione di cui, dai primi tempi, si è fatta interprete e maestra la figura dell’alpinista, dilettante o professionista che fosse.
Un tempo guide definite rozze ed ignoranti accompagnavano clienti di estrazione nobile o alto-borghese, quindi colti; il cliente portava alla guida l’idea alpinistica della via nuova o della nuova impresa, la guida eseguiva da capocordata. Dunque, grossolanamente, “teoria” del cliente e “pratica” della guida. E certe cordate famose davvero mettevano in atto quest’alleanza. Ciò che invece raramente fu detto in proposito è che la guida era ancora legata al sano “sentire” la montagna, e proprio la sua istintualità (unitamente alla sua forza fisica) riusciva a destreggiarsi nel contesto della prova: così riusciva a portare al successo e anche alla sopravvivenza la cordata, nonostante la sua pretesa ignoranza. Il “sapere” vero era questo sentire che oggi si è perso in gran parte, sostituito dalla cultura, dalle nozioni di storia e geografia, dalle attrezzature fisse, dalla fiducia nel manuale e nel catalogo delle attrezzature sportive, ma soprattutto dall’ottimismo della messa in sicurezza. Ed è questo sapere che riscopre l’esploratore Franco Michieli (garante internazionale di MW, ndr) quando scrive «È qualcosa che paragonerei all’immergermi nell’ascolto di un brano di musica sinfonica, pieno di significati senza che intervengano spiegazioni a voce. Credo di dovere la mia facilità a orientarmi nella natura a questa univocità di linguaggio tra paesaggio esteriore e paesaggio interiore; e credo che sia questa medesima corrispondenza ad aprire anche in me, al rivelarsi di un nuovo territorio oltre la cresta, uno spazio nuovo che di colpo rivela più vasta anche l’esistenza» (Rivista della Montagna, n. 232)


Probabilmente la causa degli incidenti è più da ricercare nel nostro disequilibrio interiore e nella mancanza di relazione con l’ambiente esterno: vogliamo tutto e subito, in quel weekend. Ci sono dei programmi da rispettare: e in questa trappola cadiamo quasi tutti, anche i più esperti che talvolta sono costretti ad assecondare i meno esperti e a seguire calendari stampati da tempo. Vi ricordate l’Everest 1996 e le tragedie dovute all’insistenza dei clienti e alla debolezza delle guide? Allora non c’erano le condizioni per una relazione corretta con la montagna, è evidente. Ma qualcosa di simile capita anche oggi e qui. Tendiamo a vivere la montagna più come sfondo alle nostre prodezze che come reale e potente, davvero potente, partner della nostra natura interiore; più per il nostro puro divertimento piuttosto che per una nostra crescita; più per un banale svolgimento di programma piuttosto che per un’accettazione dei capricci della natura.
L’escalation di misure ed attrezzature di sicurezza non fa che allontanare ciò di cui abbiamo più bisogno e che temiamo di dover affrontare per via della fatica necessaria: la vera sicurezza che nasce dentro di noi nella contemplazione della nostra stessa serenità. Forse il compito più difficile, l’unica scuola in cui è davvero faticoso diplomarsi.
Gli appassionati di montagna riconosceranno davvero questa necessità e cercheranno di metterne in pratica il profondo insegnamento? I soci di Mountain Wilderness sono tutti disposti ad aprirsi ad un maggiore feeling con la montagna rinunciando a qualche tecnologia? Così faremmo tutti un sano ritorno al passato, ricchi però anche dell’enorme bagaglio dell’esperienza moderna: e sarebbe l’esperienza più onesta e più ricca di potenzialità.

Alessandro Gogna