Dino Buzzati voleva “salvare dalle macchine le Tre Cime di Lavaredo”.

Si può citare la storia di quel tale, che, il latte della mucca non bastando alla famiglia, ebbe la bella idea di macellarla. Sì, moglie e figli si ingozzarono di carne. E dopo?” Un profetico Dino Buzzati sul Corriere della Sera del 5 agosto 1952.

Una buona notizia – ci hanno detto – per quelli che vanno in montagna sulle ruote. Nelle Dolomiti del Cadore si costruirà una strada senza precedenti; perché finora le strade dolomitiche passavano sotto le montagne e anche nei punti più alti come i valichi, ma per arrivare alle pareti ci voleva ancora un bel pezzo di cammino per i boschi, forre, praterie, ghiaioni. Mentre questa nuova strada – che si prevede possa essere aperta per le Olimpiadi del ’56 – entrerà propriamente fra le crode, nelle segrete intimità del loro regno, e non si tratterà di montagne da strapazzo, di dolomiti di secondo ordine, anzi saranno i picchi più famosi, carichi di gloria e di leggenda.

Da Misurina una strada carrozzabile (ricavata a poco a poco dalla vecchia mulattiera militare aperta durante l’altra guerra) porta al rifugio Caldart (ex Principe Umberto) a forcella Longeres, metri 2320, sotto la Cima Ovest di Lavaredo. A suo tempo, l’arrivo delle auto fin lassù parve uno scandalo e venne da molti deprecato. Ma si era solo alla porta di quel mondo magico, all’esterno della formidabile fortezza. Più in là si andava a piedi. L’incantesimo si poteva dire salvo.

Domani invece, dal rifugio Caldart, le automobili saliranno ancora, costeggiando gli apicchi allucinanti della Piccola scavalcheranno la forcella Lavaredo (m. 2457) chiusa tra la Piccolissima e la Croda del Passaporto, taglieranno i ghiaioni che fasciano il Paterno e raggiungeranno il rifugio Locatelli (m. 2438). Di qui poi si progetta che la strada, penetrando in una delle più selvagge e impressionanti concentrazioni di guglie, torri, muraglioni, si spinga fino al rifugio Zsigmondy-Comici (m. 2235) sul quale incombe la Croda dei Toni con la parete nord sinistra e sghemba; quindi la strada scenderà in Val Fiscalina, uno dei siti più romantici del mondo, per raggiungere Sesto di Pusteria nel fondovalle.

Detto questo, non si è detto ancora niente, per chi lassù non c’è mai stato. Infatti le Tre Cime di Lavaredo, il vicino gruppo del Paterno, la Croda dei Toni, la Cima Uno con la celebre parete, la Cima Undici, la Croda Rossa di Sesto, la Cima dei Tre Scarperi (tutti nomi entrati nella storia della nostra guerra ’15-’18), queste superbe dolomiti tra cui ieri passavano pochi gruppetti di alpinisti e domani strepiteranno orde di auto e motorscooters, questi giganti non solo offrono di per sé spettacoli che non ce ne sono molti sulla Terra ma, a differenza di altri gruppi dolomitici, formano una specie di enorme roccaforte chiusa nella più severa solitudine, come è rarissimo nelle Alpi orientali. Quando viene a parlare delle Cime di Lavaredo, nella sua classica guida che per gli alpinisti è come la Bibbia del Cadore, Antonio Berti alza istintivamente il tono: «Siamo nell’empireo delle Dolomiti» scrive. «Sono tre enormi blocchi rocciosi, meravigliosamente regolari, che, da qualunque lato si guardino, sfidano nella loro bellezza qualsiasi confronto… Dal rifugio Locatelli, quando si adergono di fronte, lo sguardo si inchioda, percosso da stupore, sulla fantastica trinità, sulla divinità dolomitica suprema, erompente formidabile dal deserto sassoso… Sono là, enigmatiche come sfingi. La Piccola, piena di meravigliosa storia alpinistica; di fianco, in linea perfetta, le due gemelle più grandi, con quei loro strapiombi senza eguali…»

Strada per le Tre Cime di Lavaredo, parcheggio del Rifugio Auronzo.

Lassù dunque passerà la strada. Ciò che oggi costa ore di fatica, si avrà con qualche litro di benzina. I «motorizzati» si fermeranno ad osservare con ironici sorrisetti di pietà – e non avranno bisogno di binocolo data la minima distanza – quei pochi disgraziati senza senno che ancora si ostineranno a inerpicarsi su per le muraglie spaventose. All’attacco della parete nord della Grande, sotto lo strapiombo smisurato, ci sarà un caffè con sedie a sdraio perché i turisti possano seguire i rocciatori senza la necessità di un torcicollo. Tra i ghiaioni, nel cuore del santuario, risplenderanno le colonnette di benzina, cartelloni giganteschi a gloria di dentifrici e carni in scatola rallegreranno gli occhi intimoriti dalla solennità cupa delle rupi, e non c’è dubbio che Forcella Lavaredo sarà il clou della tappa dolomitica del Giro, con premio di traguardo e sesquipedali scritte in minio inneggianti a Fausto Coppi (se ci sarà ancora).

Evviva dunque! Si lamenta, ed è voce sacrosanta, che le genti alpine siano abbandonate. Fatta eccezione per Cortina, il Cadore fa una vita grama. Una delle popolazioni più sane e belle del nostro Paese non sa come campare. E la strada delle Cime di Lavaredo – si afferma –, questa strada che diventerà famosa in tutto il mondo, porterà migliaia e migliaia di turisti. Al paragone, gli altri percorsi dolomitici spariranno addirittura. Verranno dunque forestieri in folla, si apriranno nuovi ristoranti, alberghi, chioschi, garages, eccetera. Molta gente insomma avrà da lavorare che adesso non lavora. E’ vero. Ma si può citare la storia di quel tale, che, il latte della mucca non bastando alla famiglia, ebbe la bella idea di macellarla. Sì, moglie e figli si ingozzarono di carne. E dopo? Verranno sì lunghissimi cortei di macchine italiane e forestiere, verranno franchi, dollari e sterline. E dopo? Si è sicuri che dopo il conto torni?

Ricordiamoci che più passa il tempo e il progresso tecnico dilaga e le città crescono e la vita è tiranneggiata dalla macchina, tanto più gli uomini sentono il bisogno disperato di fuggire, rifugiandosi nella superstite natura. La solitudine, i posti senza case e senza strade, i boschi, le montagne diventeranno cose preziosissime, più preziose che i filoni d’oro. Qui in Italia, a giudicare dagli umori generali, alla saturazione non si è giunti, pare, ma è fatale che ci si arriverà. E quel giorno si farà qualsiasi sacrificio pur di trovare un eremo. Ma sarà rimasto allora un posto simile?

Ricordiamoci che la natura vergine, come l’ha fatta Dio, sta diventando una autentica ricchezza. Di tale ricchezza le Dolomiti sono una miniera prodigiosa che il mondo sempre più ci invidierà. Ma se la si sfrutta ciecamente, per la smania di pomparne soldi, un bel giorno non ne resterà una briciola. Ci saranno sì ancora le montagne, ma deturpate, involgarite, istupidite, ridotte a mucchi di pietra senza senso. La strada, dicono, porterà dollari e sterline. Di questo passo perché non vendere in America i capolavori dei musei? Non fa proprio nessuna differenza.

Tutti ammettono che gli Svizzeri di turismo se ne intendono. In questo campo è fuor di dubbio che sappiano badare al tornaconto. Come mai allora mantengono apposta strette e malagevoli molte strade di montagna proprio nelle valli più famose? Come mai non permettono alle automobili di salire fino a Zermatt? Come mai stanno ora smantellando gli albergoni in cima al Righi? Sono scemi forse? O si lasciano guidare da ridicoli estetismi? Il fatto è invece che guardano lontano; e capiscono come il vantaggio d’oggi possa essere fatale in avvenire.

Le Dolomiti poi non sono colossi smisurati come il Monte Bianco o il Rosa, corazzati di ghiacciai, che possono «resistere» impunemente a una strada, a una teleferica, a un traforo. Relativamente, le Dolomiti sono piccole, sono delicate, basta poco a deturparle. Certo, se la strada verrà fatta, nei primi anni sarà un gioco esaltante scorrazzare in macchina nella selva di quei picchi favolosi, sembrerà una bellissima conquista. Però un giorno pagheremo il conto. Un giorno, quando le Dolomiti saranno tutte un autodromo, la loro poesia andrà a farsi benedire. E la gente preferirà la Svizzera; e i grandi alberghi resteranno vuoti.

Adagio – sentiamo dire a questo punto –, adagio coi sentimentalismi e con le critiche. Questa è una strada di interesse militare e di fronte a una motivazione così seria ogni obiezione automaticamente cade; la via diretta tra Misurina e Sesto è della massima importanza per alimentare quel bastione difensivo costituito dalle montagne stesse (dove del resto anche nell’altra guerra si cristallizzò il fronte di battaglia).

Se questo è vero, le discussioni cadono. A parte il dubbio che basterebbe una bombetta a interrompere il traffico per mesi (ma è il dubbio sciocco di un uomo della strada) non pretendiamo di entrare in merito a una faccenda così grave e delicata. Ma in tale caso, se la strada verrà fatta, non si può salvare ugualmente la montagna? Ci sarà sempre un rimedio semplicissimo; basterebbe che le superiori autorità vietassero il traffico civile.

Che illusioni, che ingenuità ridicola. Quando la strada fosse pronta, chi riuscirebbe a trattenere la frenetica valanga di arnesi a sei, a quattro, a tre e due ruote, ansiosi di far rintronare la la maestà solinga delle crode? Con che vandalico entusiasmo l’immondo coro degli scappamenti devasterà i purissimi silenzi. Sotto le sdegnose rupi, nelle notti di luna, scintilleranno di luminarie al neon le «stazioni di servizio». Su per i canaloni tenebrosi, dove sepolte dalle frane le ossa di qualche alpino ancora giacciono, salirà il crepitio svergognato dei «due tempi», mescolato a echi di orchestrine. E uno dei più meravigliosi posti della Terra sarà per sempre rovinato.

Dino Buzzati