Sentinelle dell’Alpe

Sentinelle dell’Alpe di Paolo Rumiz, già pubblicato su MW notizie del 2008

Settembre 2017 è stato segnato pesantemente da una profonda crisi ambientale che si fa ogni anno più pressante. Al caldo e alla siccità dell’estate sono seguiti nubifragi e uragani: dall’Italia agli Stati Uniti, l’emergenza diventa una costante.
Da anni si levano allarmi inascoltati e l’articolo di Rumiz è di un’attualità sconcertante.

Paolo Rumiz. Foto: Wikipedia

 

Sentinelle dell’Alpe

Ho cominciato a frequentare la montagna da bambino. Da adolescente ho sognato le prime arrampicate leggendo “Alpinismo Eroico” di Emilio Comici, e talvolta inseguendo questo eroismo ho rischiato la vita da incosciente. Erano gli anni in cui, specialmente nella mia Trieste, le Alpi erano le sentinelle della Nazione. Da Aosta a Tarvisio gli Alpini uscivano ancora con i muli. Poi è arrivata la stagione adulta, il sesto grado, le nuove vie aperte in Pale di San Martino, Gruppo dell’Agner, Dolomiti della Sinistra Piave. A trent’anni ho lasciato l’arrampicata, quando ho messo su famiglia, ma ho continuato a frequentare la montagna con occhio attento alle sue genti e al suo habitat.

Arrampicata nel Parco Veglia Devero

Negli anni seguenti ho raccontato l’Alpe come giornalista e scrittore, continuando a percorrerla in silenzio, e più la percorrevo, più aumentava la mia insofferenza per certo alpinismo -ginnico, narciso e dunque infantile- che puntava all’estremo ignorando tutto ciò che circondava lo strapiombante itinerario verso la vetta. Tutto, a partire dagli uomini. Essi non vedevano l’agonia dei ghiacciai, l’inselvatichirsi del territorio, la desertificazione dei villaggi, la requisizione delle sorgenti, l’aggressione degli ultimi spazi vergini, la cementificazione degli altopiani, la costruzione di impianti di risalita nel cuore di parchi naturali. Non reagivano allo smantellamento del paesaggio che la nostra Costituzione ci impone di tutelare.
Nel 2003, l’anno della grande sete, ho monitorato le Alpi, in un affascinante viaggio di quattromila chilometri dal Golfo di Fiume fino alle Alpi Liguri. Il Grande Male che ci mina dall’interno era visibile ovunque, nel prosciugamento dei fiumi. Mai nella storia d’Italia, erano stati così spaventosamente vuoti. Il loro simbolo era il Piave, teoricamente sacro alla Patria, ma praticamente ridotto a un rigagnolo, un greto allucinante spesso più alto delle stesse strade che lo costeggiano. Uno stupro perpetrato dalla stessa Enel che aveva ereditato il Vajont.
Non esiste in Europa un Paese con i fiumi nello stato pietoso di quelli italiani. Le nostra acque non mormorano più, sulle nostre valli scende una cortina di silenzio funebre di cui nessuno parla. La gravità della situazione non sta solo in quelle ghiaie allucinanti, ma nel fatto che pochissimi le notino, nel fatto che TUTTO attorno a noi -dalla pubblicità audiovisiva nelle stazioni alla dipendenza nazionale dai telefonini- è costruito perché non ci rendiamo conto del disastro e continuiamo a dormire sonni tranquilli fino a requisizione ultimata delle risorse superstiti.

Alpe Maccagno, Val Vogna. Foto: Luigi Ranzani

L’opinione pubblica italiana dorme, sta a noi svegliarla. Sta a noi, innamorati della montagna, ricordare che l’Italia è malata e nonostante questo c’è chi vuole succhiarle le ultime risorse. Una notissima multinazionale dell’alimentazione sta apprestandosi a requisire le ultime fonti dell’Appennino tosco-emiliano; altre società hanno catturato le residue sorgenti libere della Valtellina con la scusa di preservare una risorsa preziosa.
Si inventano eufemismi per consentire gli espropri: per esempio “neve programmata”, per nobilitare quel salasso di fiumi moribondi che si chiama innevamento artificiale. Si afferma che pompare acqua dai fiumi serve a sostenere l’economia della montagna e quindi a evitare lo spopolamento, ma tutti -anche i citrulli- sanno che quegli impianti affogano in deficit spaventosi che la mano pubblica, resa sensibile da opportune donazioni, sarà chiamata a coprire con i nostri soldi. E tutti, nel comparto, sono a conoscenza che più nessuno in Austria, Francia, Slovenia, Svizzera ed altre nazioni montanare d’Europa, programma seggiovie a quote dove la neve non arriva se non episodicamente.

Innevamento artificiale

Ma la grande scoperta della mia vita di giornalista è stata l’Appennino, che ho percorso metro per metro nel 2006, dando vita a un’altra serie di reportage. Ho scoperto un arcipelago di meraviglie e una rete di uomini-eroi che si ostinano a resistere in quota perché hanno la lucida certezza che l’equilibrio del nostro Paese dipende dalle terre alte. Un’Italia minore, dimenticata dal potere, della quale temo che il nuovo federalismo in auge servirà solo a sdoganare il saccheggio.
Il simbolo di questa aggressività suicida del Paese verso la sua montagna l’ho visto incarnato nella pastorizia, massacrata di divieti e schiacciata da un’alleanza fra burocrati di provincia e una grande distribuzione che spaccia nei nostri negozi carne straniera senza nome e senza qualità. La pastorizia, cenerentola dimenticata, dopo essere stata per secoli inestimabile ricchezza del Paese.
Sempre più spesso capita che ai piccoli comuni spopolati e in bolletta si presentino emissari di grandi aziende che, in nome dell’equilibrio ambientale ed altre cause nobili come l’abbattimento del CO2 o il salvataggio delle acque, propongano la costruzione di piccoli o grandi centrali, come quella a biomasse che presto stravolgerà la parte più intatta dell’Appennino parmense. Senza più lo Stato alle spalle, questi Comuni non hanno più gli argomenti tecnici e la capacità contrattuale per dialogare alla pari con questi giganti danarosi, capaci di mettere a tacere qualsiasi resistenza. La montagna da sola non ce la fa a proteggersi. Anzi, talvolta è la peggior nemica di se stessa.
Per questo credo che il ruolo di sentinella dell’Alpe vada rivisto. Noi restiamo sentinelle, certo: sapendo però che il nemico non è più esterno alla frontiera, ma abita qui e si muove come vuole nella finanza, nell’economia e nella politica del Paese.
Per batterlo serve un’alleanza fra città e provincia, alpinisti e montanari. L’Italia è un Paese di montagna, e non voglio che diventi un’esausta colonia, a disposizione di poteri senza patria.
E verrà un giorno in cui i fiumi si svuoteranno, l’aria diverrà veleno, i villaggi saranno abbandonati come dopo una pestilenza, giorni in cui la neve e la pioggia smetteranno di cadere, gli uccelli migratori sbaglieranno stagione e gli orsi non andranno più in letargo. Verrà anche un tempo in cui gli uomini diverranno sordi a tutto questo, dimenticheranno l’erba, le piante e gli animali con cui sono vissuti per millenni.
Sembrano le piaghe d’Egitto. Invece è l’Italia di oggi. Se un profeta solitario incontrato per strada ci dicesse tutto questo, gli daremmo del matto? Oppure taceremmo per la vergogna di ammettere che è già successo e di non aver fatto niente per impedirlo?

Paolo Rumiz