Free K2. La discesa dal camino Bill
Riportiamo alcuni stralci del diario di Carlo Alberto Pinelli che nel 1990 guidò la spedizione con la fondamentale collaborazione di Fausto De Stefani. Di Carlo Alberto Pinelli
Dopo l’entusiasmante “scandalo” dell’occupazione del pilone volante della funivia dei ghiacciai al Monte Bianco, la seconda grande iniziativa che portò Mountain Wilderness alla ribalta dell’alpinismo e dell’ambientalismo internazionali fu la spedizione “ecologica” FREE K2- K2 LIBERO organizzata nel 1990 per restituire alla seconda più alta vetta del pianeta la sua originaria integrità e il suo significato alpinistico.
L’impresa riscosse uno straordinario successo: con un mese di lavoro vennero rimossi più di 2500 kg di rifiuti solidi e oltre dieci km di vecchie corde fisse abbandonati dai precedenti visitatori, salendo oltre il camino Bill fino a 7000 metri di quota.
Ciò mutò per sempre sia i comportamenti delle successive spedizioni in tutta l’Himalaya, sia l’atteggiamento delle nazioni interessate. Vennero emanate norme -purtroppo non sempre sufficientemente efficaci- volte a vietare che venissero lasciate sulle montagne tracce del passaggio umano.
Qui di seguito riportiamo alcuni stralci del diario di Carlo Alberto Pinelli che guidò la spedizione avvalendosi della fondamentale collaborazione di Fausto De Stefani e di altri alpinisti sia italiani sia stranieri. Il DVD del film sulla spedizione può essere richiesto alla segreteria di Mountain Wilderness Italia.
Domenica 19 Agosto
“Cosa fai, scendi da solo?” La domanda di Fausto nasce da una preoccupazione sincera, ma suona un poco superflua.
Lui e Tobias restano al campo terzo per proseguire poi il lavoro di rimozione sopra il camino di Bill House; e la tendina d’alta quota ha solo due posti. Dunque non ho molta scelta. E
poi lungo la via di discesa verso il secondo campo ci sono ancora, provvisoriamente, molte vecchie corde fisse. Verranno tolte solo alla fine dell’operazione. Lo so: sarebbe più saggio
non tenerne conto perché la fiducia che ispirano è in gran parte illusoria e potrebbe costarmi cara. Però la loro presenza mi tranquillizza. Per lo meno mi eviterà il rischio di smarrire
la strada. Strano ragionamento per chi è salito fin quassù a 6500 metri di quota con lo scopo di eliminare dalla montagna ogni traccia di passaggio umano! Ma per l’appunto io non sono più un alpinista all’altezza della sfida che offre lo sperone Abruzzi: di quello “vero”, si intende! Libero da protesi artificiali. La mia presenza in quota è giustificata solo dal lavoro di documentazione che sono venuto a svolgere con la macchina da presa.
“Allora vado, a presto”. Sono le quattro del pomeriggio. Aggancio il discensore alle prime corde e in breve raggiungo il salto verticale del camino inferiore. In alto, sopra la cupoletta
rosso fuoco della tendina, incombe su tutto lo sperone l’elegante fascia di calcare del camino di Bill House.
Quando parliamo della fragilità degli ambienti montani non intendiamo certo dire che il loro destino geologico può dipendere, in un senso o nell’altro, dalle effimere azioni degli uomini. Fragili, proprio perché particolarmente intense, sono solo le nostre aspettative nei loro confronti. Fragili, ma preziosi, sono i sogni, le speranze che questi ambienti sovrumani risvegliano nella fantasia e scaldano il cuore. Purtroppo bastano alcuni mucchietti di rifiuti su una morena per spezzare l’incanto rendendoci più poveri. Qui, più che altrove, quando lottiamo per difendere l’ambiente montano in realtà proteggiamo il nocciolo più autentico di noi stessi. Abbiamo lavorato tutta la mattina, lungo i cinquanta metri verticali del camino. Fausto impegnato a disseppellire dal ghiaccio grossi gomitoli di corde e scalette metalliche. Io impegnato a filmare alla meglio i suoi gesti, appeso a un chiodo precario, in posizioni di inenarrabile scomodità che mi hanno letteralmente sfiancato. E ora devo riuscire a scendere, con lo zaino stracolmo che mi sega le spalle. Un minuscolo ragno che si cala, appeso a un
filo, lungo vertiginosi scivoli di roccia instabile, neve marcia e ghiaccio vivo.
Il pomeriggio allunga le ombre, circoscrive le macchie dorate del sole, rende i contorni più netti e definitivi, estrae dal paesaggio una ossessiva nota iper-reale.
Questo è il K2, amico mio! E tu sei solo, davvero solo, a oltre seimila metri di quota. Il pensiero è insieme esaltante e pauroso. Se non fossi così esausto potrei godermi pienamente l’intensità
magica del momento. Lontano, al di là della Sella dei Venti, si stende un vasto arcipelago di vette sconosciute. è la catena del Kun Lun cinese che in un passato ormai lontano avevo
tanto desiderato esplorare. In quegli anni quanto avrei dato per potermi trovare nelle condizioni visive in cui mi trovo adesso! Ciascuna di quelle montagne vergini mi sarebbe
apparsa come una futura meta, ricca di irresistibile fascino.
Ora non più. Mi sento lontanissimo da progetti di esplorazione e conquista. Dal punto di vista della risposta del fisico questa avventura è già stata un di più: un regalo inaspettato che la giovinezza al tramonto ha voluto fare alla vecchiaia in arrivo.
Percepisco con particolare intensità la sensazione che questa è l’ultima volta. è una sensazione non spiacevole, ma semmai leggera e liberatoria. Quasi uno spogliarsi dai panni ingombranti del desiderio per rivestirsi con il saio dell’essenzialità. La discesa sembra non avere mai fine. Con l’aumentare della stanchezza si fa sempre più irresistibile la tentazione di affidare il proprio peso alle vecchie corde fisse, per lasciarsi scivolare in basso, senza fatica. Fortunatamente le corde stesse, rese rigide dal gelo, tengono a bada un desiderio così
pericoloso. Una parte della mente continua a divagare. Perché darsi tanta pena per eliminare attrezzature che rendono più agevole il raggiungimento della vetta? Naturalmente c’è la questione della scarsa affidabilità di corde fisse e scalette, corrose dalle intemperie e dalle frequenti scariche di sassi.
Però il motivo di fondo è un altro. La loro presenza lungo la via inquina la qualità dell’esperienza alpinistica che è bello vivere quassù. E può trasformare l’emozione dell’incontro con l’ignoto in un banale exploit fisico.
Una lunga e penosa traversata su un pendio di neve marcia mi porta sull’ultimo crestone. In basso compaiono improvvisamente, piccolissime, le tende del secondo campo. Intorno alle tende scorgo tre figure umane. Forse alzano gli occhi e gridano saluti che non riesco a sentire. Immagino che stiano accendendo il fornello per prepararmi una tazza di tè. In quella tazza fumante si concentra per un attimo l’intero senso della vita. Cerco di accelerare ma non ci riesco. Come accade nei sogni mi pare
di essere incollato al terreno. Una mosca invischiata sulla carta moschicida. Passa altro tempo. Quanto? Poi finalmente giunge il momento di sganciarmi dall’ultima corda per perdermi nei sorrisi e nell’abbraccio dei compagni. Ho la sensazione di avere alle spalle un’avventura misurabile non in ore ma in ere geologiche. Guardo l’orologio: sono solo le cinque e mezza. In tutto la discesa è durata poco più di cento minuti!
Carlo Alberto Pinelli