Peste suina: cronaca di un disastro annunciato

Di Flavia Cellerino, responsabile Mountain WIlderness per la Liguria

Chi segue le cronache cittadine genovesi sa che è ormai un rituale la fotografia della famigliola di cinghiali o porcastri (molto più prolifici) che si aggira sul greto del Bisagno, su quello del Polcevera, nei viali dell’Ospedale san Martino, presso i cassonetti dell’immondizia sulle alture urbane e sulle spiagge cittadine, con tanto di bagno salutare in mare. Che l’Appennino sia sovrappopolato da cinghiali (e non solo) è cosa nota, segno di uno dei tanti squilibri ambientali che l’abbandono progressivo dei nostri monti ha generato. Boschi incolti, sentieri spariti, villaggi abbandonati che fanno tanto poesia, ma che sono la prova evidente di quanto, in questa Italia non si sia fatto nei decenni, per tentare almeno in parte di arginare il progressivo e incontenibile esodo dei contadini verso le città e la pianura. Perché la comparsa della peste suina è, ancora una volta, la prova di una mancanza di progettualità e di visione sul territorio, e non è la sciagura improvvisa per gli escursionisti e per chi pratica attività outdoor, che in questo momento, tra basso Piemonte e Liguria, tra Savona e Recco si trovano, improvvisamente, a non poter più effettuare escursioni di vario genere. O meglio non è solo questo.

L’emergenza per la peste suina mette in evidenza una serie di temi che non si traducono solo nella necessità di salvaguardare quel poco di vita sociale ed economica che ancora sopravvive nelle nostre vallate. Mette in evidenza la cronica incapacità di armonizzare in una visione di sistema integrato il territorio e di risolvere in (non) conflitto tra “città” e “campagna”, tra pianura e monte. Partiamo da qui: dalle motivazioni addotte per giustificare il divieto. Per salvaguardare gli allevamenti di suini, soprattutto quelli intensivi che si trovano nelle nostre pianure padane, e non solo: cioè per salvaguardare un modello industriale di produzione alimentare inevitabilmente confliggente con il sistema di allevamento tradizionale, parcellizzato, familiare che nelle aree interne, montuose, può essere praticato. E’ una vecchia storia, che si ripresenta. Si pensi alla questione dei formaggi di malga sottoposti agli stessi protocolli sanitari dei formaggi prodotti negli stabilimenti, e che non possono più essere commercializzati….
In questi ultimi anni in Italia, si è iniziato a capire, grazie ad alcuni soggetti illuminati che amano veramente le aree interne e le aree alpine, che il nostro Paese non è fatto solo di grandi, storiche città, ma di piccoli borghi, meravigliosi, spesso spopolati, incistati in aree non facilmente raggiungibili, in cui i servizi (dai trasporti alla sanità) latitano, in cui usare il computer o lo smartphone è una impresa, in cui persino gli uffici postali stanno chiudendo e le banche si guardano bene dall’aprire uno sportello.
In questo “luogo di delizie” con volontà pervicace alcuni soggetti hanno tentato di invertire il processo: penso al modello di Ostana, un borgo della Valle Po, penso ai sindaci e amministratori che, in controtendenza, hanno inventato offerte turistiche e culturali attente all’ambiente e al territorio, penso a quei giovani che sono rimasti nelle aziende di famiglia sopravvissute nelle aree interne o addirittura sono tornati a reimpiantarle, con tutte le speranze e difficoltà del caso.
Il tutto, in generale, nel disinteresse medio di una politica e di amministrazioni, che nelle migliori delle ipotesi non ostacolano, nelle peggiori remano contro. L’arrivo della peste suina, arrivo prevedibile e previsto mette a nudo ancora una volta il farraginoso, lento, sistema di governo e controllo del territorio: un sistema sul quale non si è mai veramente investito, perché non ci si è mai veramente creduto. Mancano i geologi per monitorare i versanti delle valli che franano (e strade sono chiuse), mancano i forestali, mancano tutti i presidi che dovrebbero essere in grado di intervenire prima che certi danni si verifichino. La peste suina, è , ancora una volta, la prova di una cronaca incapacità di progettare e prevenire: perché in Italia, non importa in quale settore, si opera sempre e solo in un clima emergenziale: strappandosi le vesti e litigando sulle bare e sui disastri, spesso con toni esasperati in cui solo prevale l’emozione sulla razionalità. Un Paese in perenne emergenza, che spende il doppio, il triplo di quanto necessario per operare, che insegue i problemi, ma di fatto non li risolve mai. Un Paese privo di memoria: basterebbe guardare alla solida storia del territorio e di come è stato gestito dalle comunità nei secoli, attraverso armoniche disposizioni giuridiche e sociali per mettere a punto modelli attuali, flessibili e in grado di coniugare eccellenze tecnologiche e snellezze burocratiche. E invece no: la farraginosità e la complessità burocratica impediscono qualunque azione, la subordinano a una serie di veti, controlli, balzelli che tutti coloro che operano hanno ben sperimentato. Va detto una volta per tutte: Il controllo del territorio va devoluto alle comunità che lo vivono e lo conoscono. Il centralismo qui non può funzionare, perché non ha mai funzionato. Compito della politica è armonizzare interessi opposti, allungare lo sguardo e cogliere le necessità di progetti integrati ed armonici in cui gli interessi tra le parti non siano in perenne conflitto, ma puntino nella stessa direzione.
Quindi l’arrivo della peste suina ha messo in evidenza, ancora una volta, il modello di intervento tipico: si attende che esploda il problema, si interviene con enfasi, si organizzano tavoli e riunioni, si invoca la soluzione a breve, si danno tempi: 6 mesi la situazione si cronicizza, i tempi slittano e gli italiani si abituano al divieto.


La peste suina è l’emergenza del momento, ma è la vita di sempre. Un film già visto. E sappiamo anche come andrà a finire. a meno che… a meno che in un sussulto di cittadinanza, di orgoglio, di volontà e coraggio, non la si usi come laboratorio per sperimentare un nuovo modo di co-gestire il problema,  in cui tutti possiamo fare la giusta parte, e in cui non si operi solo attraverso divieti di stampo dirigista.
In cui ci si accorga, finalmente, che il retroterra Appenninico non è il luogo delle scampagnate, ma un territorio portatore di istanze economiche e sociali, di risorse preziose, di futuro vero. E credo che spetti a che ama veramente il nostro Paese, e ha a cuore il suo futuro e non solo miseri interessi di parte, investire le sue energie migliori per non trasformare la questione della peste suina nell’ennesima guerra tra poveri, ma in una occasione di studio e di approfondimento e di azioni di risposta convincenti. Non si possono affrontare in maniera superficiale i sistemi complessi.

Flavia Cellerino