Scalate montagne, non corde fisse!

di Steve House (pubblicato su Climbing n. 283, marzo 2010)

Free K2, 1990 , bonifica, ancoraggi con più corde rifiuto

Gli sport hanno delle regole. Ma l’alpinismo, con le sue radici di ribellione e anarchia, ha delle etiche, un codice condiviso che stabilisce quali possono essere gli aiuti artificiali. È il diritto del primo salitore di fissare quel modulo che le successive generazioni si sforzeranno di superare.

Le etiche sono indissolubilmente legate al rischio. Noi tutti gestiamo i rischi dell’alpinismo in modi differenti. Più comunemente tramite il modo in cui saliamo: dal free solo all’arrampicata ben protetta a spit, fino all’elicottero che ti passa a prendere in vetta, ci sono molte altre modalità intermedie.

Ero uno scalpitante diciottenne quando fui introdotto all’alpinismo, in Slovenia. Era il 1988, mi trovavo in un soggiorno annuale di studio e naturalmente trovavo l’arrampicata molto più interessante delle lezioni di biologia in sloveno. In Slovenia, come ovunque, c’erano etiche poste su piani scivolosi. I compagni mi rimproveravano se mi attaccavo a un chiodo sulle croate rocce calcaree di Paklenica, ma mi incoraggiavano ad appendermi ai chiodi per essere più veloce nelle salite alpinistiche nelle Alpi Giulie o nelle Alpi di Kamnik. Lassù ci impegnavamo a riportare a valle tutti i nostri rifiuti, anche la carta delle caramelle. Ma quando un anno dopo andai con una spedizione slovena al Nanga Parbat gli stessi compagni buttavano via gli involucri del cibo, abbandonando anche tre campi e centinaia di metri di corde fisse. Da quel boy-scout che ero stato, ero sbigottito.

Steve House

Sì, ero salito a jumar per tutta la lunghezza di quelle corde, ma mi aspettavo di doverle poi rimuovere. Quando il nostro capo annunciò la fine della spedizione, solo io e un altro andammo a cercare di recuperare quanto più possibile del Campo 1. Gli altri non si mossero neppure quando tornammo al campo base con carichi giganteschi. Il giorno dopo, i membri della spedizione fecero un gran falò della maggior parte di quanto avevamo portato giù, giudicandolo un equipaggiamento troppo sciupato per giustificare il costo del trasporto a valle e a casa. Come succede spesso, era una questione di soldi.

Schizziamo al maggio 2009: mi stavo acclimatando sulla via normale del Makalu, ai 7300 metri del Campo 3 e guardavo con tristezza due sherpa che, per ordine del loro capo-spedizione, cercavano di sgombrare tre tende, 10 materassini, 4 sacchi piuma, stoviglie, viveri vari e dozzine di scatole di latta. Alla fine raccolsero solo una mezza dozzina di bombole di ossigeno – le cose più di valore – e gettarono palate di neve su tutto il resto. Non era cambiato nulla.

Nessuno di noi, e certamente neppure io, ha tutte le risposte: tutti gli ambientalisti sono ipocriti. Io mi condanno da solo per contribuire, con i miei numerosi voli aerei intercontinentali, all’inquinamento delle scie dei jet. Ho personalmente piantato circa 20.000 piantine di abeti Douglas e Pinus ponderosa nelle foreste dell’Oregon, una specie di tassa verde autoinflittami. Mi piace mangiare carne, così l’anno scorso ho allevato e macellato due manzi nei tre acri che circondano casa mia. Le bestie, soprannominate Jim e Jim, fornirono abbastanza carne per i bisogni di un anno della mia famiglia, di quella di mia sorella e dei miei genitori.

Mie ipocrisie: per allenarmi in falesia vado in macchina. Casa mia è riscaldata. Brucio benzina per farmi il tè. Ogni cosa che faccio incide sull’ambiente, ma lo accetto e mi chiedo: è sufficiente a minimizzare il mio impatto? È sufficiente che scalando il Makalu non mi lasci dietro nulla? Non sapendo quale sia la sufficienza, non posso rispondere facilmente alle domande. Mi sembra sbagliato agire così, cioè non provare a scegliere il percorso più etico.

Lasciare corde fisse, abbandonare campi, insozzare la montagna è sbagliato. Non etico. Ma chi è responsabile? Ecco come succede: la prima spedizione della stagione piazza le corde fisse, sistema i suoi campi, fa i suoi tentativi alla vetta e alla fine se ne va. Altre spedizioni, subito dopo, continuano a usare le stesse corde fisse e talvolta anche le stesse tende. Alla chiusura della stagione è troppo facile negare ogni responsabilità: “Non sono stato io a portare lassù quella corda/tenda/bombola di combustibile!” è il ritornello, unitamente al postulato di una insufficienza di portatori per pulire. È tempo che India e Pakistan tornino a dare un solo permesso a stagione per ogni via? Questo risolverebbe di certo il problema della responsabilità. E anche gli ufficiali di collegamento devono essere meno permissivi.

Sulla mia montagna preferita del Nord America, il Denali (Mount McKinley), ci sono corde fisse permanenti sul West Buttress, la via normale, sulla quale salgono o tentano di salire un migliaio di alpinisti all’anno. Un servizio delle guide patentate, coadiuvate talvolta dai rangers del National Park Service (NPS) e da volontari, mantiene efficienti queste corde. Anch’io ho aiutato. Ho fatto da guida sul West Butt la prima volta nel 1992 e poi altre 13, con successo, includendo le due volte nelle quali abbiamo salito il Complete West Rib, dove fissammo e rimuovemmo le nostre corde.

Sul West Buttress ho visto che le corde per raggiungere il campo a 4250 m venivano rimpiazzate con l’elicottero dell’NPS. Stando alla normativa, le corde fisse sulla headwall del West Buttress, da 4250 a 4700 m, violano il bando sulla wilderness. Sfido l’NPS a rispettare le sue proprie regole: pulite il Denali, rimuovete le corde! L’NPS in Yosemite spesso ha ordinato ai rangers di rimuovere le corde fisse. Perché sul Denali dovrebbe essere diverso?

Risolto quello, sono già risolti tutti i problemi associati al migliaio e più di alpinisti all’anno, con ciò ottenendo quello che regolamenti e permessi hanno risolto solo in parte. Dopo aver passato centinaia di giornate su quella montagna, posso dire che assai pochi degli aspiranti al Denali hanno le capacità tecniche di destreggiarsi sui trecento metri inclinati a 50° della headwall senza le corde fisse. Ho guidato molte comitive sul West Buttress e ho salito e disceso quel tratto in ogni caso. Le corde fisse sono richieste dall’alta percentuale di clienti per guida, come imposto dall’NPS. L’NPS richiede un minimo di tre persone per cordata, anche se due sono guide, per la sicurezza nell’attraversamento dell’assai crepacciato Kahiltna Glacier. Mi ci sono voluti otto anni per ottenere il certificato IFMGA di guida di montagna; non mi va che l’NPS mi dica come svolgere la mia professione. Io sono per un 2:1, massimo 3:1 clienti per guida, non per il 4:1 che vedo normalmente, per nulla appropriato alla serietà dell’ascensione del Denali. Una cordata ben addestrata può estrarre il caduto in un crepaccio assai velocemente, e come guida mi assicuro che i miei clienti sappiano farlo.

Me lo sento già dire: sono un elitario. Ma io rifiuto questo, almeno qui, perché è questa montagna  ad essere così ghiacciata e ripida.

Dovremmo cominciare a scalare montagne e smetterla di scalare corde. Continuerò ad obiettare che, in pratica, campi, corde fisse, bombole di combustibile e materiale vario di arrampicata sono abbandonati come rifiuto su ogni montagna himalayana di un certo nome.

Basta! Dovremmo pensare di vergognarci. Dovremmo cominciare ad affrontare queste imprese nei termini più propri: è nel miglior interesse collettivo.

Dovremmo riportare a casa ogni involucro di caramella. Immaginate se trattassimo i dintorni di casa nostra come trattiamo l’alta montagna. Immaginate se ogni volta che qualcuno scala la Grignetta (nel testo è Rifle, NdT) mettesse corde fisse e le lasciasse lì. Cosa sarebbe la Marmolada (nel testo è Mount Hood, NdT) se ci fossero corde fisse dal ghiacciaio alla vetta?

Sappiate che: non voglio aver nulla a che fare con regole intolleranti e sempliciste sul come si deve scalare, proprio come rifuggo da regole similarmente prescrittive sul come vivere. Non sono risentito per non aver ricevuto alcun apprezzamento dopo i carichi di rifiuti che ho trasportato giù dal Denali. Sono ancora, in fondo al cuore, un anarchico, felice di sapere di aver portato tutto giù fregandomene abbastanza di sapere quanta ne ho portata, perché questo non aggiungerebbe nulla a quanto so già.

In più ammiro la nobiltà intrinseca al vivere una buona vita o al realizzare una bella scalata. Sono in stand-by per ciò che riguarda il mio denunciare che quando una spedizione lascia una montagna insozzata da rifiuti, i membri ignorano il legittimo interesse degli altri di godere di una cima non inquinata. Certo, è giusto che ci siano differenze di stile, ma ci sono anche dei limiti.

Fissate le vostre corde per salire alla cima dell’Everest. Assediate la vostra montagna. Assediate anche la Grignetta (nel testo è Rifle, NdT), non mi interessa.

Ma portate via il vostro materiale. Lasciate le montagne, le seraccate e le falesie come le trovate. Magari provate a lasciarle in condizioni ancora migliori. Anch’io lo farò. Alla fine, se tratteremo l’ambiente con rispetto, dimostreremo che rispettiamo noi stessi.