Vie ferrate: la posizione di Mountain Wilderness

Un recente articolo pubblicato sul Gognablog ha ripercorso il blitz di MW del 1993 alla ferrata Che Guevara sul Monte Casale, nella Valle del Sarca.
In quella occasione, alcuni attivisti di Mountain Wilderness, tra cui Casanova e Pinelli, rimossero 200 metri di cavi che Giogio Bombardelli aveva abusivamente sovrapposto ad un precedente itinerario alpinisitico.
Per quel blitz Mountain Wilderness è stata citata in giudizio per danneggiamento, poi assolta.

Riportiamo di seguito, per esteso, il testo di MW Italia sulle vie ferrate e sul processo derivato dal blitz alla ferrata abusiva di Monte Casale.

In calce, un confronto tra Casanova, Gogna e Pinelli, sul metodo e sulle strategie che battaglie ambientaliste di questo tipo dovrebbero avere.

Via Ferrata Che Guevara

Vie ferrate: la posizione di Mountain Wilderness

In linea di principio la nostra opposizione alle vie ferrate e ad ogni altra forma di colonizzazione degli spazi montani non tradizionalmente antropizzati affonda le sue radici proprio nella genuina dimensione culturale che noi attribuiamo al rapporto tra l’uomo civilizzato e la natura incontaminata. Tale rapporto, ove si esaurisse in una prospettiva banalmente ludica e ginnica, perderebbe i suoi connotati più autentici e tradirebbe la sua potenziale funzione di ausilio all’ armonica maturazione della personalità umana. Equipaggiare la montagna selvaggia con impianti di risalita, strade di quota, vie ferrate e quant’altro equivale ad addomesticare un ambiente geografico che trae il suo significato proprio dal proporsi come NON addomesticato e NON addomesticabile. L’antropizzazione forzata ed innaturale di questi spazi ne soffoca irrimediabilmente la vocazione: non li trasforma in docili schiavi. Li uccide.
Questo è quanto noi sosteniamo in linea di principio. Nella pratica – e limitando il discorso ai soli itinerari montani attrezzati – riteniamo che sia opportuno, oggi, distinguere tra via ferrata e via ferrata, evitando di assumere posizioni oltranziste che la maggioranza dei frequentatori delle nostre Alpi non sarebbe ancora culturalmente preparata a recepire.
Per il momento basterà dire che siamo assolutamente contrari alle vie ferrate costruite per raggiungere le vette e a quelle che cancellano precedenti vie alpinistiche. Con una precisazione: nessuno di noi pensa che chi utilizza una via ferrata compia automaticamente una azione riprovevole. Però non possiamo fingere di ignorare che di per se stesse le vie ferrate nascondono sempre una sottile, pericolosa mistificazione: esse inducono l’escursionista a credere che quelle monotone sequenze di cavi metallici e scalette rappresentino per lui l’unica possibilità di avvicinarsi alle emozioni della montagna verticale; mentre in realtà dalla vera esperienza della montagna lo allontanano.
Diversi convegni organizzati in passato, anche per merito del CAI, nelle proprie conclusioni hanno segnalato la necessità di smantellare progressivamente la maggior parte delle vie ferrate sulle Alpi, fatte salve soltanto quelle che presentano un preciso ed inequivocabile interesse storico.
L’azione dimostrativa compiuta da Mountain Wilderness contro la via ferrata abusiva del Monte Casale ha anticipato – e molto probabilmente ha aperto la strada – a tali sagge e coraggiose proposte.
Del resto è nei compiti istituzionali di Mountain Wilderness quello di dar vita ad azioni provocatorie ed esemplari, capaci di scuotere l’opinione pubblica, facendo crescere tra i cittadini la consapevolezza dell’importanza di problemi considerati fino a quel momento marginali, se non addirittura del tutto ignorati. Il cosiddetto “blitz” di Mountain Wilderness contro la via ferrata del Monte Casale rientrava in pieno in una simile strategia. Ma perché è stata scelta quella particolare vie ferrata e non un’altra? Le ragioni di fondo sono state chiaramente espresse nel Comunicato Stampa che allora venne diffuso dall’associazione, vanno solo aggiunte alcune ulteriori precisazioni. La via ferrata del Monte Casale non solo costituisce un’offesa al senso civico di tutti noi, in quanto è stata posta in opera in aperto spregio della diffida inviata ai suoi autori dalle competenti autorità del luogo, ma presenta un doppio tipo di pericolosità.
Tutti gli esperti concordano sulla sua pericolosità oggettiva e immediata. Per la scadente qualità della roccia, per l’infelice disegno del tracciato, per la mancanza di punti di fuga. Esiste però anche, ed è molto opportuno ricordarlo, una pericolosità indiretta, forse ancora più insidiosa. Tale pericolosità deriva dal carattere scandalosamente diseducativo della storia di questo manufatto. Lasciar correre e chinare la testa di fronte al fatto compiuto significherebbe riconoscere implicitamente che l’abuso, qualora venga perseguito con sufficiente arroganza, nella nostra società può diventare una carta vincente; finisce col trasformarsi in norma. E’ tempo che la montagna – come già sosteneva un illustre cittadino di terra trentina, il sen. Giovanni Spagnoli – perda definitivamente lo status di “res nullius”, abbandonata senza difesa al capriccio vandalico dei primi venuti; e venga definitivamente considerata – non solo in teoria ma anche nella pratica – “res communitatis”. Un bene di tutti che nessun singolo individuo può impunemente violare e manomettere senza pagarne le conseguenze.
Anni fa Mountain Wilderness si è guadagnata il rispetto e la gratitudine del popolo e del governo del Pakistan per aver “liberato” il K2 da tonnellate di rifiuti e da chilometri di corde fisse, abbandonate lungo le pendici di quel monte dalle precedenti spedizioni. Ricordo questo avvenimento per sottolineare come a nessuno dei responsabili di tali spedizioni sia venuto in mente di denunciarci per danneggiamento di proprietà privata!

Via-ferrata-Che-Guevara-Monte_Casale

Al Monte Casale invece siamo stati citati in giudizio perché abbiamo rimosso da una montagna italiana qualcosa di non molto diverso da una corda fissa himalayana o da un rifiuto metallico non biodegradabile. Anche per queste ragioni siamo confidenti che il verdetto non ci sarà sfavorevole. Però allo stesso tempo vogliamo far sapere con assoluta chiarezza che l’esito del processo ci lascia piuttosto indifferenti. Le nostre ragioni potranno venire accolte o respinte dal giudice: ma ciò non cambierà la loro natura. Certo, noi sapremo dimostrarci rispettosi del giudizio, anche se risulteremo soccombenti.
Rispettosi e tuttavia tutt’altro che pentiti. In un caso o nell’altro avremo raggiunto lo scopo che ci eravamo prefissi: aprire e mantenere vivo un dibattito a largo raggio sul problema delle vie ferrate. La denuncia penale ci ha obiettivamente aiutati. Per quel che ci riguarda, abbiamo già vinto.
A volte può essere necessario infrangere la lettera dei codici (ma noi ci auguriamo di non averlo fatto), per obbedire ad imperativi etici volti non a delegittimare il dettato legislativo, ma anzi intesi a far trionfare una interpretazione più alta e più attuale dello spirito della legge. Di questo spirito noi siamo certissimi di essere gli interpreti fedeli.
E allora, se qualcuno ci chiedesse: “Lo rifareste?” Noi risponderemmo che, proprio a motivo del suo significato esemplare e non vendicativo, un’azione di questo tipo non ha bisogno di essere necessariamente ripetuta.
Potremmo tuttavia decidere di farlo, qualora ci accorgessimo che il messaggio non ha avuto una eco sufficiente o un effetto risolutivo; o qualora la nostra eventuale condanna venisse erroneamente interpretata come una sconfitta dei valori che hanno ispirato e ispirano le nostre battaglie.

Carlo Alberto Pinelli

Il confronto tra Casanova, Gogna e Pinelli

Alessandro Gogna:

Alessandro Gogna

Io penso che a volte può essere necessario infrangere la lettera dei codici, per obbedire a imperativi etici volti non a delegittimare il dettato legislativo, ma anzi intesi a far trionfare un’interpretazione più alta e più attuale dello spirito della legge.

Ciò che non si può infrangere è il comune sentire della maggioranza, perciò a mio parere un’azione di questo tipo non deve essere ripetuta, almeno fino a che decine e decine di persone risaliranno la Che Guevara ogni weekend di bel tempo, felici di farlo.

Dobbiamo invece fare autocritica, perché il nostro messaggio evidentemente non ha avuto un’eco sufficiente o un effetto risolutivo. I nostri sforzi devono allontanarsi con energia dalle prese di posizione che risultano impopolari e rivolgersi invece a diffondere in ogni modo il messaggio culturale fiduciosi che, prima o poi, questo trionferà, senza alcun ulteriore ricorso a blitz impopolari.

Secondo me è l’opinione della maggioranza che noi dobbiamo combattere. Noi dobbiamo corrodere e lavorare ai fianchi questa maggioranza, quindi la dobbiamo combattere rispettandola. Nessun muro contro muro, ma una ferma esplorazione di qualunque altro sistema per sgretolare l’opinione della maggioranza senza che questa si senta aggredita. Noi abbiamo vinto il processo della Che Guevara, ma il risultato è che, attualmente, la gente la percorre più di prima e con ancora più soddisfazione di prima. Era questo che volevamo? Diciamolo: lo smantellamento è stato un fallimento, non andava fatto (come ho sempre detto io). Era giusto farlo ma non opportuno. MW deve scegliere se rincorrere i veri obiettivi o agire secondo talebani principi. Come con la guerra non si esporta democrazia, così con questo genere di azioni non avremo la gente dalla nostra parte. Dobbiamo essere più furbi, dobbiamo trovare modo di pensare a dei cavalli di Troia.

 

Luigi Casanova

Luigi Casanova

Ho partecipato, non come un ladro, ma in modo pubblico, alla demolizione della ferrata e ho sostenuto il successivo processo. Non condivido il pensiero di Gogna che sostanzialmente dice “quando si ha contro la maggioranza si sta fermi”. Fosse così questa nostra società non si smuoverebbe. Prima dell’azione avevamo provato tutto il percorso istituzionale: confronto (sempre rifiutato) con il Comune di Drò, con la SAT (che sosteneva il nostro pensiero, ma non l’azione), con le guide alpine. Abbiamo trovato davanti a noi un muro di omertà e di difesa del Bombardelli che si è così ritenuto libero di proseguire nella sua azione di demolizione di una via e di una parete, ferrandola. Non è nemmeno vero che l’epoca delle ferrate sia finito: si guardi a cosa realmente succede in Dolomiti, tutte. Guide alpine e Aziende di promozione turistica invitano a costruyirne in modo sempre più diffuso, si pensi alle idiozie della valle di San Nicolò o a quanto si propone a Moena verso Piz Meda. Si vanno ad intaccare gli spazi più selvaggi, si è perso ogni senso del limite. Ai nostri lettori chiedo di approfondire anche l’azione di Mountain Wilderness svolta alle Pale di San Martino, sulla Bolver Lugli, anche lì demolendo una via alpinistica. Lì, in modo più educato, avevamo apposto una elegante tabella in legno che invitava alla riflessione. Pochi giorni dopo le guide di San Martino di Castrozza l’hanno divelta e fatta sparire. Come si vede, anche da tanti altri episodi, non è MW che deve imparare l’educazione, ma tanti, troppi operatori della montagna. Fortunatamente non tutti.

Carlo Alberto Pinelli

Carlo Alberto Pinelli

Ciò che scrive e sostiene anche in pubblico Sandro Gogna non è privo di una sua logica e certamente stimola riflessioni sulle iniziative “garibaldine” che hanno caratterizzato Mountain Wilderness nei primi anni della sua comparsa sulla scena dell’ambientalismo internazionale. Mi permetto tuttavia di non essere del tutto d’accordo. Se è vero che la maggioranza dei frequentatori delle montagne ha difficoltà a accettare che le vie ferrate rappresentino il primo scalino di una discesa verso una utilizzazione della montagna prevalentemente ludica e banalizzante ( parchi tematici, passerelle tra gli alberi e le guglie, ponti “tibetani” e altre sciocchezze del genere), è altrettanto vero che le cose stanno esattamente così; e di conseguenza non è inutile o controproducente mettere ogni tanto questa pulce nell’orecchio alle folle vacanziere che vogliono sperimentare il brivido della verticalità eliminando però quasi totalmente i rischi che ad essa si associano e ad essa donano un senso profondo. Le vie ferrate sono divertenti, favoriscono un piacevole impiego delle proprie predisposizioni atletiche, permettono di fotografare i monti da una diversa prospettiva ? D’accordo. Ma dove va a finire la libertà di decidere il proprio itinerario, appiglio dopo appiglio, la capacità di imparare dai propri errori, l’ingegnosità di individuare vie d’uscita dalle difficoltà e dai pericoli? Le vie ferrate favoriscono atteggiamenti passivi ( tanto ci sono cavi e scalette a guidarci passo passo); non sono formative; non ci liberano dai condizionamenti urbani di cui siamo succubi e non contribuiscono a rivelarci aspetti creativi della nostra psiche che giacevano sul fondo, senza possibilità di emergere e di esprimersi. Restano soltanto un gioco epidermico. Sarebbe bene che i frequentatori se ne rendessero conto. Forse era troppo ingenua e radicale la strada intrapresa da Mountain Wilderness per fare capire al pubblico che l’incontro autentico con la montagna si colloca in una dimensione radicalmente diversa. Difatti il pubblico non ci ha capiti. Ma ciò non significa arrendersi, perché la posta, lo si capisca o no, è troppo alta.